Molfettese, capitano di vascello del “San Marco” ha trascorso 17 anni della sua carriera negli inferni del mondo.
di Gaetano Campione
09 Ottobre 2018
BARI – Ha dimostrato di avere il coraggio di fare sempre la cosa giusta, fronteggiando situazioni ai limiti di ogni immaginazione. Francesco Marino è il militare italiano in servizio più decorato del nostro Paese. Molfettese, capitano di vascello del «San Marco», ha trascorso 17 anni della sua carriera negli inferni del mondo. Lì dove la vita umana vale meno di un centesimo. Missioni di pace, umanitarie, ma anche guerre. Albania, Kosovo, Libano, Bosnia, Iraq, Afghanistan, Nigeria, Repubblica Centroafricana e Camerun sono solo alcune delle sue tappe professionali.
L’elenco è lungo. Come le medaglie (d’argento e di bronzo), i riconoscimenti e gli aggettivi utilizzati nei comunicati ufficiali.
La stretta di mano di Francesco Marino, capelli grigio argento, viso affilato, sguardo penetrante, è come te l’aspetti da uno così: vigorosa, ma senza esagerare.
La divisa da combattimento ha le maniche arrotolate. Sull’avambraccio c’è quello che lui definisce «un graffietto». È il ricordo di una delle tante battaglie combattute. Quella volta che tre razzi anticarro Rpg con testate antipersonale colpirono in Iraq il suo VCC1, provocando pochi danni al mezzo, ma lasciarono ferite e bruciature sulle braccia dell’ufficiale.
Marino non è Rambo. Assomiglia più all’Ufficiale gentiluomo di hollywoodiana memoria. Riflessivo, calmo, meticoloso, determinato. Un leader naturale. La sua miscela carismatica è composta da duro lavoro, addestramento, impegno, pianificazione. Nessuna pozione magica. Nella guerra reale, che difficilmente arriva sotto i riflettori dei media, non finisce sempre come nei film: i cattivi, alla fine, possono anche vincere.
Lei è il militare in servizio più decorato delle Forze armate. Come ci si sente ogni volta che una medaglia viene appuntata sul petto?
«Ogni medaglia rappresenta un evento particolare, un momento della tua vita, nel quale metti in pratica tutto quanto hai imparato e ti hanno insegnato. Se devi portare a termine un compito lo devi fare bene, con tutta la professionalità possibile. In gioco ci sono la tua vita, quella di chi sta con te e intorno a te. Il merito è di tutti. Da soli non si va da nessuna parte».
Qual è stata la molla che le ha fatto scegliere in San Marco?
«Lo spirito di servizio verso il prossimo, l’aiuto che arriva sempre dalla gente di mare se ti trovi in difficoltà, la voglia di avventura e di scoprire mondi nuovi. È questa cultura tipica dei marinai che ci ha sempre distinto dagli altri e con questi ideali sono entrato in Marina e nel San Marco. Mi sento fortunatissimo e appagato perché ho realizzato quello che sognavo di fare».
La vita di un militare è costellata di rinunce e addestramento, sacrifici e dedizione, sogni e speranze. La sua finora come è stata?
«Movimentata. Vivo ogni giorno con lo stesso entusiasmo di sempre».
Come si diventa buoni comandanti di uomini?
«Condividendo e dando l’esempio. Il capofamiglia sei tu e da te si aspettano le giuste indicazioni. Devi costruire con gli altri un legame mentale e morale indissolubile. Non esiste un distacco. Certo, c’è la gerarchia che non è autoritarismo, ma una forma di rispetto riconosciuta in quanto guida e leader, costruita giorno dopo giorno».
Il S. Marco è composto da uomini comuni in grado di compiere imprese straordinarie grazie a profondo senso del dovere e addestramento rigoroso. È così?
«Certo. La nostra è una fratellanza spinta all’interno della quale ognuno metta le propria vita nelle mani dell’altro. Se non si vivono certe esperienze, forse, non si può capire fino in fondo il ragionamento».
Non è semplice comprendere chi decide di rischiare la vita restando nell’ombra. Può provare a spiegarlo?
«Siamo una famiglia a tutti gli effetti fondata su dei valori comuni. Questo spirito si sviluppa appena entri e si concretizza quando sei fuori, impegnato nell’attività operativa, dove diventa ancora più forte».
Il S. Marco può essere considerato una delle eccellenze del nostro Paese?
«I risultati delle missioni parlano da soli. Ritengo di sì».
L’hanno mai ringraziata abbastanza per quello che ha fatto?
«Non ci ho mai pensato, il lavoro e la professione che svolgo mi ripagano di tutto».
Se uno le parla di Nassiriya, cosa le torna alla mente?
«Una parte importante della mia vita di militare caratterizzata dal sacrifici e dal valore di quanti hanno lavorato con me. Sembrerà assurdo, ma l’immagine più impressa è di una normalità sconcertante. Rimanemmo per tre giorni nella sede della Cpa tra colpi di mortaio e raffiche di kalashnikov. A un certo punto mi viene voglia di caffè. Sì, ha capito bene. Lo dico a gran voce: “Prendiamoci un caffè”. Mi guardano come se fossi impazzito. Poi uno va alla macchinetta, inserisce la capsula e mi porta il caffè. Così a turno lo abbiamo bevuto tutti. Un gesto che serviva ad allentare la tensione, a riscoprire un pizzico di normalità in una situazione impegnativa».
Qual è il ruolo della famiglia nel suo lavoro così particolare?
«Importante, perché resta un punto di riferimento primario. Non penso sappiano esattamente qual è stato fino in fondo il mio lavoro. Anche perché non avrebbe senso, una volta tornati a casa, raccontare cose ormai lontane. Forse, anche difficili da comprendere».