Poco meno di sessant’anni fa, la notte fra il 28 e il 29 ottobre 1955, in piena Guerra fredda, la più grande corazzata della flotta sovietica, il “Novorossiysk”, saltò in aria e…
di Pietro Spirito
Poco meno di sessant’anni fa, la notte fra il 28 e il 29 ottobre 1955, in piena Guerra fredda, la più grande corazzata della flotta sovietica, il “Novorossiysk”, saltò in aria e affondò mentre era all’ormeggio nel porto di Sebastopoli, in Crimea, provocando la morte di oltre seicento marinai. Le autorità sovietiche dissero che l’esplosione era stata causata da una mina tedesca, un residuato bellico finito chissà come a contatto con la nave alla fonda. Altre versioni non accreditate parlarono invece di un sabotaggio, un vero e proprio atto di guerra che aveva come obiettivo la corazzata. Che non era una nave qualsiasi, bensì la nave da battaglia “Giulio Cesare”, la perla della flotta della Marina militare italiana, ceduta ai sovietici assieme ad altre unità quale risarcimento di guerra come previsto dal Trattato di Pace, lo stesso che aveva ceduto alla Jugoslavia l’Istria e la Dalmazia.
Chi diceva che ad affondare la corazzata non fosse stata una mina vagante ma un commando di sabotatori, indicava anche con precisione i responsabili: gli ex incursori della Xª Mas di Junio Valerio Borghese, gli stessi Uomini Gamma dell’unità speciale d’assalto della Marina italiana che nel corso del secondo conflitto mondiale avevano dato molti grattacapi agli Alleati, colando a picco o danneggiando decine e decine di navi, tra cui l’incrociatore York e le navi da battaglia Queen Elizabeth e Valiant, meritandosi una valanga di medaglie d’oro. Ma come, a dieci anni dalla fine della guerra la Xª Mas non era stata smantellata? La risposta è complessa. Dopo l’8 settembre 1943, i reparti della Decima in parte rimasero fedeli al Regno del Sud combattendo al fianco degli Alleati, in parte seguirono Borghese e aderirono alla Rsi. Con Borghese la Decima divenne una unità militare principalmente di fanteria di marina, con reparti di naviglio sottile dotati di Mas e l’obiettivo di continuare la lotta contro gli Alleati. Ma l’arruolamento venne aperto a chiunque, frotte di giovani esaltati e violenti si precipitarono a indossare la divisa della Decima, e molti reparti furono impiegati nella lotta antipartigiana (in Liguria, Langhe, Carnia, Val d’Ossola etc.), macchiandosi di efferatezze come la cattura di ostaggi fra i civili, torture sui prigionieri e fucilazione sommaria di partigiani (o civili ritenuti tali) catturati. Una macchia indelebile su quella che era stata l’unità di eccellenza della Marina, macchia che Borghese non aiutò certo a cancellare. Com’era possibile, dunque, che ex appartenenti alla Decima fossero in grado di affondare una corazzata in acque sovietiche, e a dieci anni dalla fine del conflitto?
La vicenda del “Novorossiysk”. ex “Giulio Cesare” è stata a lungo archiviata come uno dei tanti misteri dei tempi della Guerra fredda. A rilanciare adesso, e supportare, la tesi dell’attentato compiuto da incursori italiani – tesi per altro più volte avanzata negli anni e sempre smentita – è il giornalista Luca Ribustini, che nel libro “Il mistero della corazzata russa – Fuoco, fango e sangue” (Pellegrini Editore, pagg. 141, euro 15,00) ricostruisce sulla base di nuovi documenti scovati negli archivi soprattutto della Marina militare non solo l’affondamento della nave, ma anche il clima, il modus operandi e le trame segrete che fanno da contorno all’esplosione che mandò a picco il “Novorossiysk”. Il libro viene presentato domani, alle 17.30, alla Casa del combattente in via XXIV Maggio a Trieste, dal regista della Rai Luigi Zannini con il giornalista Andrea Vazzà, presente l’autore.
Ed è uno scenario inquietante quello che emerge dal libro di Ribustini, solo in parte già noto: la messa in atto di azioni di spionaggio, a volte di sabotaggio, verso i Paesi socialisti, maturate in stretto connubio fra Cia e servizi segreti italiani, con l’appoggio e la copertura delle Forze armate. Insomma quel milieu fitto e fosco in cui crebbero organizzazioni paramilitari come Gladio e che fa da prodromo, vent’anni più tardi, all’ancora più oscura stagione delle “stragi di Stato”. Ribustini inizia la sua indagine da una rivelazione: la battuta, durante un’intervista nel 2013, di un ex incursore della Xª Mas, Ugo D’Esposito. Alla domanda “Ugo, secondo lei come è affondata la corazzata Giulio Cesare?”, la risposta è lapidaria: “Siamo stati noi. Noi della Xª Mas”. Siccome D’Esposito non partecipò direttamente all’operazione, Ribustini inizia la caccia alle prove. Intervista i naufraghi russi scampati al naufragio del “Novorossiysk”, scandaglia archivi, cerca testimonianze ovunque. Ma trova più silenzi che conferme. Finché una serie di documenti non svela «che già dal 1949, dunque sei anni prima del fatto, il Ministero dell’Interno era perfettamente informato dell’esistenza di “un’organizzazione” preposta all’affondamento del Giulio Cesare». «Fatto ancora più grave – aggiunge Ribustini – è che l’organizzazione aveva a disposizione mezzi e uomini in grado di condurre una vera e propria “azione di guerra” con l’ausilio di “elementi fiduciari” della Marina Militare, dunque delle istituzioni italiane, che avrebbero offerto appoggio logistico per l’operazione di sabotaggio».
Che la cessione all’Unione Sovietica di tante unità della Marina, a cominciare dal “Giulio Cesare”, come risarcimento di guerra non andasse giù non solo ai nostalgici del regime ma anche alla stessa Marina e ai servizi angloamericani, era cosa nota. Al punto che il timore di sabotaggi prima della cessione costrinse la polizia italiana a piantonare le navi. Ribustini ricorda fra l’altro il caso dei “ragazzi della Colombo” un gruppo di studenti che avevano militato nella Decima di Borghese, arrestati, processati e condannati nel 1949 per aver tentato di far saltare in aria la nave scuola “Cristoforo Colombo”, anche questa destinata ai sovietici.
Ma ciò che il libro di Ribustini svela è in particolare l’attività di spionaggio compiuto negli anni Cinquanta a bordo di navi mercantili italiane destinate ai porti sovietici, specie in Crimea. Elementi della Marina militare venivano imbarcati sui mercantili come mozzi o altro personale civile, per non meglio precisate “missioni riservatissime” nelle acque del Mar Nero. E proprio la notte tra il 28 e il 29 ottobre 1955 nel porto di Sebastopoli c’erano diversi mercantili italiani che dopo l’esplosione «salparono in tutta fretta», come testimoniano i marinai russi sopravvissuti all’affondamento del “Novorossiysk”. Alla fine della sua inchiesta Ribustini non riesce a trovare le prove che ad affondare la corazzata sovietica – sia per ragioni “di vendetta” che per ragioni squisitamente strategiche, visto che la stessa Nato temeva l’impiego sulla nave di proiettili tattici a testata nucleare – siano stati ex incursori della Decima con l’appoggio della Marina militare. Troppe bocche cucite e soprattutto troppi documenti svaniti nel nulla. Ma la tesi del sabotaggio italiano ne esce rafforzata.