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Il business della demolizione navale, tra sfruttamento e nuove opportunità

1 Maggio 2013

Demolizioni navali

In media una nave mercantile ha una vita media utile di trent’anni, prima di essere rottamata. I dati del rapporto 2016 della ONG “Shipbreaking platform” ci rivelano così che ogni anno circa mille navi raggiungono la fine del loro ciclo di vita e vengono smantellate per recuperare l’acciaio e altri materiali. Molto spesso, però, ciò avviene sia senza rispetto dell’ambiente marino e dello smaltimento corretto dei vari rifiuti tossici sia della stessa sicurezza dei lavoratori. Più del 60% delle grandi navi arrivate a fine servizio finisce in Asia meridionale per la rottamazione dove, tra le spiagge dell’India, del Bangladesh e del Pakistan, vengono demolite pezzo dopo pezzo manualmente da lavoratori per lo più migranti con un prezzo fin troppo pesante sull’ambiente e sulla salute delle persone. Bassi salari, regolamentazione inesistente, scarsa attenzione ai problemi ambientali: questi i motivi principali che hanno determinato la delocalizzazione dell’attività in questi Paesi. Caratteristiche che rendono oggi la demolizione navale, o ship-breaking, una delle attività più rischiose al mondo. Plance, eliche, timoni e catene, adagiati in un basso fondale sabbioso pieno di fango e liquidi oleosi: intorno agli scheletri di vecchie petroliere, navi passeggeri, etc. si avvicendano decine di lavoratori che, per una paga minima e in condizioni di lavoro precarie, rischiando la vita tra le sostanze tossiche rimaste nei serbatoi delle imbarcazioni.

Nato nel 1969 e con un’estensione di circa 20 km lungo la costa, uno dei più grandi cantieri di demolizione navale al mondo si trova nei pressi della città portuale di Chittagong, in Bangladesh e dà lavoro ad oltre 200.000 persone. Un cantiere che ha attirato, più volte, anche l’attenzione di grandi associazioni come Greenpeace, la Federazione internazionale dei diritti umani e la YPSA (Young Power in Social Action). Qui il processo di smantellamento risulta, infatti, particolarmente impegnativo ed estenuante soprattutto a causa delle condizioni lavorative pessime in cui si trovano i vari lavoratori. Fra loro ci sono non solo adulti a rischiare la pelle, ma anche bambini, impiegati per raggiungere i tunnel e cunicoli più angusti, a svitare bulloni, spezzare rivetti, rompere le saldature, in modo da recuperare la maggior quantità di metallo possibile: soprattutto ferro. Ogni anno sono milioni di tonnellate i materiali che vengono recuperati in questi cantieri di fortuna, senza riguardo alcuno per l’ambiente: ad esempio tra le tante navi riciclate si trovano anche petroliere che vengono smantellate gettando in mare i residui tossici come il fondo delle cisterne con il greggio raggrumato. Nelle navi sono presenti anche amianto e altre sostanze pericolose che finiscono in mare. Decine di demolitori rimangono infortunati per incidenti connessi a questo lavoro. A Chittagong si muore, inoltre, schiacciati dall’acciaio, cadendo da grandi altezze o investiti da esplosioni di materiali infiammabili. Il tutto, per uno stipendio pari a 20-40 centesimi l’ora, per circa 10-11 ore al giorno, in uno dei paesi più poveri al mondo dove il reddito annuo pro capite fatica a superare i 1100 euro. Quello che dal 2004 al 2008 venne considerato come il più grande cantiere navale del mondo, infatti, nonostante l’enorme mole di navi demolite, non è ancora stato capace purtroppo di organizzarsi in una moderna industria di recupero.

Gran parte delle navi smantellate provengono da paesi ricchi che spediscono in questo angolo di mondo, anche illegalmente, la loro “immondizia” con accordi pre-smantellamento presi da mediatori senza scrupoli che comprano le navi in disuso dagli armatori e le rivendono ai padroni dei cantieri navali. È record il numero di navi di proprietà europea spiaggiate in Asia meridionale: l’84 per cento di quelle demolite sono finite sulle coste dei tre paesi asiatici. La Germania è il primo paese al mondo a spedire le navi da demolire sulle spiagge asiatiche se si guarda al rapporto tonnellaggio-navi demolite. L’anno scorso, su cento navi demolite, 98 sono finite sulle coste di India, Pakistan e Bangladesh. Segue la Grecia con il maggior numero di navi vendute in Asia meridionale, 104. Tra i Paesi che ogni anno contribuiscono all’inquinamento del sub-continente indiano c’è anche l’Italia. Negli ultimi sette anni, circa 90 navi appartenenti ad armatori italiani sono state smantellate sulle spiagge dell’Asia meridionale.

Oggi un accordo dell’International Maritime Organization, in vigore dal 2015, stabilisce che le grandi navi debbano essere bonificate, cioè private di tutti i materiali e i liquami tossici, prima di essere avviate verso i cantieri di demolizione. Ma la legge, purtroppo, viene oggi spesso aggirata con l’adozione al momento opportuno della cosiddetta “Flag of Convenience” (bandiera di convenienza), ossia vendendo le navi da dismettere ai cosiddetti “cashbuyer” (coloro che comprano in contanti) che battendo una bandiera non europea, ma di piccoli Stati, divengono i nuovi proprietari della nave per occuparsi del suo smaltimento. In questo modo gli armatori risultano non imputabili di nulla, perché non risulta che abbiano mandato alcuna nave a essere smaltita.

L’Europarlamento ha creato nuove regole per l’eco-riciclo delle vecchie navi con una norma che prevede che le navi targate europee (si parla di oltre mille navi da rottamare nei prossimi anni) vengano smantellate solo in strutture ”certificate”, incluse in una lista Ue. Potrebbe aprirsi così un’opportunità per i porti italiani di attrezzarsi adeguatamente e di candidarsi per entrare nella lista dei siti certificati dall’UE per la rottamazione e il riciclo dei materiali recuperati dalle vecchie navi.

FONTE: Logo Amm Degiorgi oro

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