L’altro giorno ho ricevuto una mail da un caro amico, che mi parlava della sua intenzione di creare un modello della “Chiesetta Italiana delle Orcadi”. Sapendo della sua bravura, nel creare modellini in scala di chiese e monumenti, oltre che bravissimo fotografo di relitti spiaggiati, mi ha incuriosito ed ho effettuato delle ricerche sull’argomento.
Ecco in sintesi cosa ho “scoperto” ( ringrazio Ilaria Battaini che con il suo sito mi ha aperto gli occhi su un fatto ai più sconosciuto, e vi invito a fargli una visitina)
Intanto la mail introduttiva:
“Alcuni di voi sanno che, date le dimissioni dalla Carriera diplomatica a fine 2012, ho ripreso un’antica passione: la fotografia di relitti spiaggiati sulle coste del mondo. A causa del Covid, non potendo viaggiare, costruisco modelli architettonici di chiese antiche (quattro modelli nel 2020). Non ho smesso, peraltro, di fare mostre personali in Italia e all’estero, esponendo foto e modelli architettonici. Altre sono in programma (Vancouver, Leeds, San Benedetto del Tronto, Bologna, ecc.). Costruisco attualmente il modello in scala 1:50 di San Miniato al Monte (Firenze, 1013): è lungo 110 cm. Ci lavoro da sette settimane, ne mancano tre.
Appena avrò finito il modello di San Miniato, intendo costruire il modello della cosiddetta Cappella Italiana delle Isole Orcadi (Scozia). La mia intenzione ha una valenza particolare, in tempo di pandemia.
Mi spiego: nel 1943, circa 500 prigionieri di guerra italiani (fatti prigionieri in Nord Africa dagli inglesi), furono internati nelle Isole Orcadi. Grazie alla benevolenza dei guardiani del campo, costruirono una chiesa (lunga 23 metri), con la facciata in muratura e la navata costituita da due baracche Nissen (metalliche, a forma di semi cerchio). Essa è ben conservata, viene utilizzata, il parroco locale vi officia, matrimoni vi vengono celebrati, ed è stata dichiarata monumento nazionale in Scozia. Non è l’unico esempio di italiani all’estero (ad esempio, durante la costruzione di Grandi Opere, soprattutto in Africa) che lasciarono chiese e cappelle. Ma la Cappella delle Orcadi è particolare: è stata costruita in prigionia, come del resto alcune altre in Gran Bretagna, in Africa e in USA.
Il principale attore di questa straordinaria vicenda è uno dei reclusi, un cittadino di Moena, che nella vita civile dipingeva immagini religiose, e che convinse gli inglesi ad aiutarlo. Si chiamava Domenico Chiocchetti. Numerosi altri suoi commilitoni parteciparono all’impresa. E’ morto nel 1999. Sono in contatto con i suoi figli.
Dal punto di vista architettonico la chiesa non ha particolare interesse. Dal punto di vista emozionale la chiesa ha secondo me un valore immenso, soprattutto in tempi di Covid. Quegli uomini trovarono la forza di reagire attivamente, senza parole o promesse vane: portarono a termine la loro iniziativa, simbolo di speranza, ignari di ciò che il futuro avrebbe riservato al mondo, senza contatti con le rispettive famiglie. Essi (i loro discendenti, ormai, essendo trascorso tanto tempo) sono rimasti amici della popolazione locale, e persino dei guardiani del Campo 60. L’Inghilterra ha dato in quell’occasione un magnifico esempio di civiltà, umanità e tolleranza. La Cappella delle Orcadi lo dimostra. (E’ uno dei motivi per cui sono contento di avere un nipotino cittadino inglese). La Cappella ha fatto diventare amici dei nemici.
Questo è il link https://www.youtube.com/watch?v=MutoGduwmh8) ad una recente intervista via Zoom del Circolo italiano di Aberdeen all’autore di un libro sull’edificio, Philip Paris; il libro è stato tradotto in italiano (La chiesetta della pace, Curcu & Genovese, 2016). Il locale Comitato per la Preservazione della Cappella italiana è attivo. Wikipedia contiene un lungo articolo sulla Cappella. I media italiani non hanno dedicato molto interesse alla questione.
Il modello della Cappella delle Orcadi – anche se l’originale non è opera di Federico II, Alberti, Bramante, Bernini, e/o di altri grandi architetti, artigiani, maestri d’ascia – è degno di figurare accanto ad altri miei modelli: San Miniato al Monte, Cappella Rucellai, Divina Sapienza, Santa Maria della Consolazione, Castel del Monte, San Pietro, Notre Dame, tre chiese russe di 300 anni fa, una chiesa norvegese di 800 anni fa, una chiesa rumena di 300 anni fa, San Basilio, una sinagoga, una moschea, la chiesa memoriale di Sant’Alessandro. La Cappella mette a contatto con una testimonianza moderna di fede, speranza e fiducia, non diversamente da ciò che si prova di fronte ad una cattedrale o a una basilica.
L’Italia ha scoperto alcuni mesi fa il senso della parola “resilienza”. L’Uomo la conosce da millenni. I militari italiani prigionieri alle Orcadi forse non la conoscevano, ma hanno dimostrato di possedere questa caratteristica in modo eccelso; come molti, oggi, d’altronde. Il mio modello rende loro omaggio, come gli altri miei modelli di edifici di culto rendono omaggio ai loro costruttori ed ai fedeli che vi si sono raccolti nei secoli.
Il rapporto fra la fotografia di relitti spiaggiati (che mi appassiona da 52 anni) e la costruzione di modelli architettonici di edifici di culto (che pratico da 25 anni), è semplice: gli uomini affidano i loro corpi alle navi e le loro anime alle chiese. La centralità dell’Uomo è ovvia in entrambi i casi. Non so se ciò sia Arte ma è un modo di omaggiare i nostri antenati. Nel caso dei relitti: architetti, costruttori, manutentori, marinai ignoti, ma anche emigranti, soccorritori in mare, sommozzatori, migranti. Quanto ai modelli: architetti, capomastri, manovali, maestri d’ascia, scultori, pittori…
Sono stato invitato dall’antichissima Accademia delle Arti del Disegno ad esporre i miei diciotto modelli architettonici a Firenze. E’ per me un grande onore. La mostra dovrebbe svolgersi nel corso del 2021. Questa è la didascalia che apporrò sotto il modello della Cappella Italiana delle Orcadi, “Prigionieri di guerra, prigionieri del Covid”.”
www.stefanobenazzo.it
Ed ecco quello che potete trovare sul sito di Ilaria:
“THE ITALIAN CHAPEL”
LA VERA STORIA DELLA CHIESETTA ITALIANA ALLE ORCADI
Un miracolo italiano. È raro, ma succede. E se capita a chilometri e chilometri di distanza dalla madrepatria, in un periodo buio e maledetto come quello del secondo conflitto mondiale, sul suolo spoglio di un’isoletta remota dove tempeste atlantiche e inquietudini del Mare del Nord si incontrano e si scontrano ogni giorno, allora sì che si tratta di una storia straordinaria, di quelle che più ci pensi e più hanno dell’incredibile; di quelle che toccano il cuore e accendono speranze per questa Italia così malmessa e per un’intera umanità disgraziata.
Nella mia vita – fatta, come quella dei più, di una routine che calza stretta, ma tutto sommato tranquilla ed “agiata” – cosa sia l’inferno di una guerra è difficile capirlo fino in fondo, ma posso riuscire a immaginarlo.
Partenze a tempo indeterminato; viaggi di sola andata verso un fronte sconosciuto, dove combattere uomini mai visti prima, con indosso una divisa diversa dalla tua. Separazione, paura, incertezza, solitudine, impossibilità di comunicare con la famiglia. Una quotidianità in cui il libero arbitrio non trova spazio; scandita da ordini superiori, scoppi, agguati, imboscate, lotta per la sopravvivenza, sangue, morte, uomini a terra feriti oppure fatti prigionieri. Come le migliaia di soldati italiani catturati a più riprese fra il 1940 e il 1941 dagli inglesi in Libia. Sognavano di tornare nelle proprie case, dalle loro mogli e fidanzate, dai figli lasciati ancora in fasce o prima ancora che venissero alla luce. E invece CHURCHILL pensò bene di spedirli in capo al mondo, su un’isoletta minuscola e disabitata, persa ai confini d’Europa, fra nuvole basse e gelide nebbie nordiche; niente più che un francobollo di terra, pianeggiante e spoglia, senza riparo dal vento, senza alberi, né acqua potabile, né uomini; lontanissima – e non solo geograficamente – dalle miti brezze mediterranee e dall’Italia. Nessuno di loro, prima di allora, si era mai sognato che un giorno la vita lo avrebbe portato in un campo di prigionia tanto sperduto, circondato da un freddo e ostile nulla.
I prigionieri italiani del CAMPO 60, a LAMB HOLM
Ma perché un capo di stato dotato di grande senso pratico come CHURCHILL si sobbarcò l’onere di trasportare quei soldati a una distanza così grande dal luogo della loro cattura? Perché mai darsi la pena di portarli lassù, praticamente ai margini del Regno Unito?
Per trovare la risposta occorre fare un passo indietro e tornare all’una e venti del mattino del 14 ottobre 1939 quando, a sole sei settimane dall’inizio della guerra, il sottomarino tedesco U47, guidato dall’ammiraglio DÖNITZ, dopo essersi infiltrato chissà come nella grande baia di SCAPA FLOW, sfidando le maree, le doppie correnti marine e le misure difensive a protezione di quell’immensa distesa d’acqua salata, aveva osato silurare la mole colossale della nave ammiraglia HMS ROYAL OAK provocandone l’affondamento in 13 minuti netti e la perdita di gran parte dell’equipaggio.
SCAPA FLOW, ovvero la più importante base navale britannica già durante la Prima Guerra Mondiale e poi di nuovo nella Seconda; un vasto porto naturale circondato e riparato da tutta una corona di isole, separate fra loro da corridoi d’acqua da cui accedere rapidamente tanto all’Atlantico quanto al Mare del Nord.
Ora, però quel porto non sembrava più così sicuro; le sue acque parevano improvvisamente vulnerabili. In qualche modo bisognava impedire che un simile affronto si ripetesse, bloccando in modo totale e definitivo l’accesso a SCAPA FLOW.
La dinamica del raid del sottomarino tedesco U47 a SCAPA FLOW
Un nebbioso scorcio della baia di SCAPA FLOW vista dalla Mainland (isola principale)
CHURCHILL in persona arrivò sul posto per valutare se gli ingressi a est della baia – i cosiddetti “SOUNDS” (stretti) che separavano le varie isole – potessero essere chiusi una volta per tutte… proprio da lì si sospettava fosse entrato quel dannato sottomarino tedesco! E così quella sua idea, apparentemente folle e difficile da realizzare, diede il via all’opera ingegneristica più ambiziosa della Seconda Guerra Mondiale. Le BARRIERE da costruire erano ben quattro e ciò comportava un immane dispiegamento di mezzi e di uomini. Ecco perché c’era urgente bisogno di manodopera a basso costo alle Orcadi… preziosa “forza lavoro”, ecco cos’erano, agli occhi di CHURCHILL, quei prigionieri italiani; braccia da affiancare a quelle degli operai della ditta appaltatrice specializzata, la BALFOUR-BEATTY, già presente in loco.
Stipati come sardine nella stiva di una nave per il trasporto merci, dal Nordafrica gli italiani giunsero a Liverpool dopo un viaggio estenuante durato 3 mesi; poi, con il treno, su fino a Edimburgo, dove restarono “parcheggiati” per diverse settimane in un edificio abbandonato, prima di essere trasferiti ad Aberdeen e da lì finalmente imbarcati per le ORCADI.
Due erano i campi di prigionia nel frattempo allestiti lassù per accoglierli: il CAMPO 34 sull’isola di BURRAY e il CAMPO 60 sulla minuscola LAMB HOLM. È proprio qui, fra le 13 BARACCHE NISSEN di grigia lamiera ondulata dalla tipica forma a botte, sostenute da puntelli d’acciaio sul suolo fangoso di quell’isoletta disabitata, che negli anni successivi sarebbe sorta “la chiesetta degli italiani”, quella che oggi viene preservata come “monumento nazionale di grado A”… di gran lunga il più amato dagli stessi orcadiani!
La vita al campo era assai dura e il clima crudele di quei primi mesi invernali rendeva il lavoro, di per sé pesante e pericoloso, ancora più difficile. La giornata iniziava presto, nel buio profondo delle gelide mattine nordiche e vedeva la maggior parte degli uomini assegnati alla cava di LAMB HOLM, con il compito di sottrarre materiale roccioso a pareti ostili che, come per dispetto, opponevano agli sforzi di quegli uomini la massima resistenza. Ma non era finita lì. C’era poi da spezzarsi la schiena e da scorticarsi le mani per caricare quei grossi frammenti di roccia sui camion che li avrebbero trasportati laddove si provvedeva a frantumarli, e poi, a farne blocchi di cemento da gettare, mediante manovre azzardate e rischiose, su un fondo marino che pareva non saziarsi mai. Al campo il cibo era sì povero, ma ce n’era ogni giorno per tutti. Quello che mancava era piuttosto un angolo dove elevarsi dalle miserie della guerra; dimenticare la fatica e quell’odioso senso di solitudine; uno spazio dove ritrovare finalmente un attimo di pace, una parentesi di bellezza, un alito di calore, il contatto rincuorante con il cielo.
D’altronde comunicare con la controparte non era cosa semplice… nessuna delle guardie parlava italiano ed era un attimo che l’inglese maccheronico dei prigionieri creasse un muro d’incomprensione e fraintendimenti! Trovare un punto d’incontro sembrava impossibile e così, in quelle giornate sfiancanti, fredde e interminabili, lo spirito di ribellione cresceva.
Il risultato? Uno sciopero italiano alle Orcadi! Accadde ad un mese circa dall’arrivo a LAMB HOLM, con tanto di esposto formale al MAGGIORE YATES, l’ufficiale assegnato alla direzione dei campi di prigionia 60 e 34. L’argomentazione addotta? Costruire barriere di cemento a protezione delle flotta britannica era un “lavoro di natura bellica” e pertanto andava contro ai dettami della convenzione di Ginevra. Il polverone sollevato arrivò lontano, ma CHURCHILL se la cavò alla grande replicando che in realtà non si trattava di “BARRIERE”, bensì di “STRADE RIALZATE” già progettate prima della guerra per collegare le isolette del sud con la MAINLAND (l’isola principale) a beneficio degli abitanti. Il malcontento e i tentativi di sciopero continuarono tuttavia anche nei mesi successivi, ma poi finalmente la primavera arrivò e le condizioni di vita e gli umori migliorarono notevolmente. La bella stagione di per sé aiuta assai… il clima più dolce, le giornate più lunghe e più miti, il meraviglioso risveglio della splendida natura di quelle isole… cui si aggiunsero alcune concessioni fatte ai prigionieri, come turni di lavoro relativamente più leggeri e tempo libero in più da dedicare a varie attività e interessi personali. Fu permesso loro di costruire passerelle di cemento per collegare le baracche e di creare aiuole e piccoli giardini. Un tacito accordo consentiva inoltre di prelevare “prezioso” materiale, come assi di legno e pezzi di ferro, dalle navi-blocco che stazionavano presso gli ingressi a SCAPA FLOW; materiale che, fra i vari utilizzi, sarebbe servito più in là nel tempo per la costruzione della cappella.
Ecco la strada rialzata che corre sulla CHURCHILL BARRIER n.3, che collega l’isoletta di GLIMS HOLM a BURRAY
Ecco come appare dalla ITALIAN CHAPEL la BARRIERA n.1, che corre fra la
MAINLAND (isola principale) e l’isolette di LAMB HOLM
Fra i prigionieri del CAMPO 60 c’era anche lui, DOMENICO CHIOCCHETTI, arrivato alle ORCADI poco più che trentenne; un uomo smilzo e tranquillo che, nonostante la guerra e i suoi orrori, nonostante la prigionia e le difficoltà quotidiane, mai rinunciò alla luce della propria passione: quella per l’arte. Ultimo di dodici figli, veniva da Moena – oggi rinomata località turistica della Val di Fassa – e aveva sempre voluto fare l’artista. Soldi per frequentare la scuola d’arte non ce n’erano, ma lui non smise mai di osservarne ogni forma e scintilla intorno a sé – che fossero decori, dipinti o sculture – e di esercitare il suo talento naturale, dipingendo statue sacre ed affreschi nelle chiese locali. A 15 anni ebbe l’occasione di partire per il mondo… così pareva all’epoca spostarsi da Moena a Ortisei, località della Val Gardena rinomata per la lavorazione artistica del legno. E fu proprio grazie alla sua arte che al CAMPO 60 non dovette mai patire il freddo né piegare la schiena lavorando alle barriere; operò invece al coperto, realizzando ritratti, manifesti e decori vari per il campo, incluse le scenografie per il teatrino dei prigionieri, allestito nella sala mensa. Finché nell’estate del ’42, utilizzando filo spinato e cemento, creò la sua prima opera d’arte “ufficiale”, la statua di SAN GIORGIO E IL DRAGO, a simboleggiare il trionfo della pace e la sconfitta di tutte le guerre; ancora oggi collocata a pochi metri di distanza dalla chiesetta.
Domenico Chiocchetti durante la prigionia a LAMB HOLM
La statua di SAN GIORGIO e IL DRAGO
Fu poi all’inizio del 1943, con l’arrivo a LAMB HOLM di Padre Gioacchino Giacobazzi, cappellano militare a sua volta catturato in Nordafrica nel ’41 e “rimbalzato” fra più campi di prigionia prima del suo approdo alle Orcadi, che il bisogno sempre più forte di creare un luogo dove pregare e nutrire lo spirito, si trasformò in progetto vero e proprio. Padre Giacomo, così da tutti veniva chiamato, ne parlò ai “suoi uomini” che accolsero l’idea con entusiasmo, al punto che presero subito a trasformare i materiali di fortuna in loro possesso in oggetti per l’allestimento della cappella… chi, fra loro, era artigiano esperto non tardò a forgiare tanto di croce, candelieri, lampade e lucernari in ferro battuto (anche a partire da semplici scatolette di carne!) ancora oggi visibili all’interno della chiesetta. Il MAGGIORE BUCKLAND in persona, nuovo comandante in carica e uomo di gran cuore, appoggiò di buon grado l’iniziativa, aiutò i prigionieri a reperire i materiali necessari e acconsentì all’utilizzo di due baracche NISSEN già presenti sul campo, che vennero svuotate e trasferite nel punto prescelto per la creazione della chiesa. Il cemento, gentilmente fornito dalla BALFOUR BEATTY, non mancava davvero e squadre di italiani lavorarono sodo per unire le baracche in un unico edificio. Per ancorarlo saldamente al terreno, vennero gettate vere e proprie fondamenta; poi si procedette a rivestire internamente le pareti di lamiera con del legno, per evitare che l’umidità potesse arrugginirle. Per ricoprire il legno, al posto dell’intonaco vennero utilizzati pannelli di gesso che lo stesso Domenico – con l’aiuto dell’amico GIOVANNI PENNISI, “l’artista” del campo 34, venuto appositamente in trasferta – decorò mirabilmente, in modo da creare l’effetto di una vera navata di mattoni.
Visitatori nella navata
Mentre in Italia – dopo la deposizione di Mussolini e la dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo Badoglio – il caos regnava sovrano, in Europa gli alleati si interrogavano sul nuovo ruolo degli italiani, combattuti come avversari fino al giorno prima. Nel frattempo, al CAMPO 60 la vita continuava più o meno come sempre, con la differenza che i prigionieri godevano ora di maggior libertà di movimento – stringevano amicizie con la gente del posto; qualche volta nascevano amori – mentre la chiesetta prendeva forma, arricchendosi ogni giorno di quel particolare in più. È nel presbiterio che Domenico diede il meglio di sé. Con dell’argilla, un calco in gesso e del cemento produsse un altare, che venne dipinto di bianco e collocato su un piano rialzato. Ma il vero capolavoro, quello che tuttora cattura lo sguardo di chiunque metta piede in quella cappella, è l’affresco realizzato sopra l’altare – la Madonna con il Bambino – ispirato al dipinto del pittore italiano Nicolò Barabino, di cui Domenico conservava gelosamente una copia, sotto forma di immaginetta sacra ricevuta dalla madre prima di partire da Moena. Il suo spirito artistico gli impose però di aggiungere molti elementi originali, fra cui sei angeli uniti fra loro da una pergamena con la scritta “Regina pacis ora pro nobis” (Regina della pace prega per noi) di cui due a figura intera: quello a sinistra che regge lo stemma araldico di Moena (un uomo che spinge la sua barca dalla tempesta verso il mare calmo) e l’altro che ripone la spada nel fodero. Sulle finestre ai lati dell’altare ritrasse invece le figure di San Francesco d’Assisi e di Caterina da Siena, entrambi rivolti verso la Madonna e il bambino e “incorniciati” da decori ad effetto “trompe l’oeil” che danno l’impressione di vere e proprie nicchie scavate nella parete, di fatto assolutamente piana. Aggiunse inoltre angeli musicanti ai lati del presbiterio e altri decori per creare il senso della profondità e l’illusione del vetro piombato; mentre al centro del soffitto dipinse una colomba bianca circondata da un bel cielo stellato e, più ai lati, i simboli dei quattro evangelisti (un giovane alato, un toro, un leone e un’aquila).
Il punto focale della cappella, il bellissimo affresco
della MADONNA CON IL BAMBINO
Un ulteriore tocco artistico – e che tocco!!! – venne dato da GIUSEPPE PALUMBI, originario di Teramo e mago del ferro battuto, un’arte che aveva appreso (insieme alla lingua inglese) negli anni trascorsi in qualità di migrante a Philadelphia, a quell’epoca centro di primaria importanza per la produzione del ferro. L’idea era quella di creare un divisorio fra il presbiterio, così riccamente decorato e la più spoglia navata; quindi, su disegno di Domenico Chiocchetti, Giuseppe forgiò volute, foglie e motivi floreali – lavorando duramente per ore, giorni, mesi – fino a formare una grande cancellata di straordinaria fattura. A cercare bene bene (e solo a porte aperte), ancora oggi, si può scorgere sul pavimento un fermaporta di ferro battuto a forma di cuore; il simbolo d’amore che Giuseppe dedicò alla misteriosa donna orcadiana di cui si era innamorato. Dopo la fine della guerra egli tornò dalla moglie, in Italia, ma continuò a pensare a quelle isole ventose e semi deserte dove aveva lasciato il suo cuore e quel suo capolavoro… isole lontane dove non sarebbe mai più ritornato.
La splendida cancellata in ferro battuto realizzata da GIUSEPPE PALUMBI
A questo punto la chiesetta era praticamente completa… ma tanto bello e prezioso era l’interno, quanto l’esterno restava solo una grigia e tristissima baracca Nissen! La nuova sfida era creare una facciata degna di tale nome e che fosse all’altezza di tutto ciò che stava dentro. Il compito fu affidato al tagliapietre BUTTAPASTA, stavolta su disegno di GIOVANNI PENNISI. Vennero aperte due finestre ai lati dell’ingresso e aggiunti due contrafforti per irrobustire la struttura; alcune finiture decorative, come “merlature” ed elementi floreali, contribuirono a creare un effetto d’insieme davvero niente male. Sopra la porta venne collocato un timpano con un bassorilievo della testa di Cristo, che lo stesso Pennisi creò utilizzando del semplice cemento. Molte parti vennero dipinte di rosso, perché risaltassero sul bianco del resto della facciata e fu anche aggiunto un piccolo campanile, sebbene la campana arrivò soltanto poco prima che gli italiani lasciassero per sempre il campo.
IL MIRACOLO ERA DUNQUE COMPIUTO. Ed ora che la guerra volgeva al termine, ora che quel campo di prigionia aveva i giorni contati e già si pensava a smantellarlo, quella chiesetta restava lì a dimostrare di cosa sia capace la volontà umana e di quanto vitale sia il suo spirito creativo.
Gli italiani lasciarono le Orcadi nel settembre del 1944 e lo fecero con la tristezza di chi quella terra, giorno dopo giorno, aveva imparato ad amarla; con l’amaro in bocca di chi, pur tornando ad essere libero, saluta per sempre i compagni e gli amici incontrati sul posto; ma anche con l’orgoglio di chi poteva dire “io c’ero; ero lì” a trasformare tonnellate di cemento e di roccia in quell’opera grandiosa che sono le “CHURCHILL BARRIERS”.
Chiocchetti fu l’unico a fermarsi: incredibile… voleva finire l’acquasantiera e ottenne il permesso di restare per altri dieci giorni! Circondato da soldati britannici intenti a rimuovere oggetti e a stiparli sui camion che li avrebbero portati via, Domenico continuò a lavorare con immutata passione, chiedendosi forse in cuor suo che cosa sarebbe stato della sua creatura. Allora non sapeva che quelle due baracche Nissen trasformate, con tanto entusiasmo e fatica, in quel piccolo capolavoro, sarebbero sopravvissute ancora a lungo…
I LAVORI DI RESTAURO
Dopo la fine della guerra ogni traccia del CAMPO 60 ben presto sparì. Solo la “chiesetta degli italiani” restò lì, sola soletta, a resistere agli inverni orcadiani; fragile e indifesa contro il vento e la pioggia, contro l’oblio del tempo che, così spesso e più del vento, travolge tutto e tutto spazza via. Finché nel 1958, vedendola andare in rovina, la gente del posto sollevò la questione… quella piccola gemma era in serio pericolo e qualcosa andava fatto al più presto per salvarla! A farsene carico fu Padre Whitaker, prete cattolico di Orcadi e Shetland, grazie al quale venne creato un Comitato, ancora oggi attivo, per la Preservazione della Cappella Italiana. Tutti concordarono che bisognava rintracciare l’autore degli affreschi, ormai tristemente segnati dall’incuria e dal tempo, nessuno però sapeva granché di quell’artista tornato in Italia la bellezza di 15 anni prima! Un appello radiofonico della BBC, e poi una telefonata che dalla Scozia raggiunse il municipio di Moena, permisero di contattare Domenico, che stupito e onorato della richiesta, accettò di tornare a LAMB HOLM per il restauro.
Arrivò la prima volta nel 1960 e fu accolto con tutti gli onori. Non so immaginare cosa avesse nel cuore. Respirare di nuovo l’aria pura delle Orcadi; rivedere dopo anni quella chiesetta; rivivere i ricordi tragici della guerra, senza però trovare più le baracche del campo, né i compagni di un tempo; ma, anche e soprattutto, ritrovare la magia di quel piccolo miracolo mai dimenticato. Nel 1964 tornò di nuovo, stavolta con la moglie, e portò in dono le 14 stazioni della VIA CRUCIS, intagliate nel legno a Moena e ancora oggi appese ai lati della navata. Poi, un’ultima volta nel 1970, con i due figli maggiori, che sognavano da tempo di vedere con i loro occhi quell’isoletta e di toccare con mano quella piccola chiesa, di cui il padre aveva loro sempre parlato.
Che siate credenti o no, che già ci siate stati o se mai ci andrete, lo avrete sentito… lo sentirete anche voi! C’è qualcosa di forte lì dentro; qualcosa che ci tocca da vicino, che ci scuote e ci commuove; e non solo in quanto italiani, ma come semplici esseri umani… QUEL DESIDERIO DI PACE, BELLEZZA, ARMONIA e LIBERTÀ che smuove le montagne, supera ogni limite e arriva dritto al cuore.
Ma il filo che lega l’Italia alle Orcadi non finisce qui…
Si sa, il clima delle isole è quello che è, e di prendersi cura della “ITALIAN CHAPEL” ci sarà sempre bisogno!!! Purtroppo Domenico Chiocchetti non è più fra noi, ma sarebbe felice di sapere che in tempi recenti, il restauro della sua chiesetta è stato affidato alle mani esperte e piene d’amore di una bravissima restauratrice romana – 30 anni di carriera e una miriade di lavori importanti (Cappella Sistina e Musei Vaticani… vi dicono qualcosa?)
Dal 2009 ANTONELLA PAPA è legata a doppio filo alle Orcadi, dal momento esatto in cui, ammirandone per la prima volta in foto gli splendidi paesaggi, sentì il desiderio fortissimo di mollare tutto per raggiungerle, ancor prima di sapere dove fossero. Da allora, visita quelle isole praticamente ogni anno e ne cattura ogni volta la magia in fotografie naturalistiche così belle e magicamente “vive” da mettere i brividi alla schiena (date un’occhiata alla sua pagina Instagram @thepuffinwhisperer)
Rapita dalla generosa natura orcadiana, solo dopo anni dal suo primo viaggio sentì il desiderio di visitare la “chiesetta degli italiani”; ma quell’incontro, da sempre rimandato, fu di quelli che lasciano il segno. Il suo occhio esperto non poté non vedere che quel luogo così speciale era di nuovo bisognoso di cure e, d’impulso, scrisse una mail al Comitato per la preservazione della cappella, presieduto da JOHN MUIR, offrendosi per i necessari lavori di restauro.
Per la prima volta nel 2015, e poi di nuovo nel 2017, Antonella ha così messo mano agli affreschi e lo ha fatto a titolo gratuito; non solo con grandissima professionalità, ma con tutta la sensibilità e la cura di chi ama visceralmente quel posto; utilizzando gli stessi materiali di allora e rendendo la sua mano invisibile, senza coprire né aggiungere nulla, ma cercando semplicemente di restituire ai dipinti il loro originario splendore. E si capisce perché, mentre lavorava, una processione continua di gente del posto veniva a renderle omaggio, portando un “grazie”, un sorriso, una stretta di mano e vasetti di marmellata fatta in casa. Questo è il calore genuino delle ORCADI, e non stupisce affatto che in isole così i miracoli si possano compiere
Antonella Papa al lavoro nella Italian Chapel (foto tratta dal sito ORKNEY.COM)
RINGRAZIAMENTI:
Un sentito ringraziamento da parte mia ad ANTONELLA, per avermi dedicato un po’ del suo tempo prezioso, accettando di raccontarmi di questa sua bellissima esperienza. A lei un GRAZIE per l’importante lavoro svolto a beneficio di tutti noi, che potremo continuare ad emozionarci ammirando quel piccolo prodigio di creatività e perseveranza; un GRAZIE di cuore anche allo scrittore e giornalista PHILIP PARIS, autore del bellissimo libro “LA CHIESETTA DELLA PACE – Storia dei prigionieri italiani nelle Orcadi”, scritto dopo quattro anni di puntigliosa ricerca che gli hanno permesso di rintracciare molti documenti originali e di parlare con gli ex-prigionieri superstiti e/o con i loro discendenti. Dalle sue pagine appassionate e appassionanti ho tratto le numerose informazioni necessarie alla stesura del mio articolo e l’ispirazione per trovare la mia “chiave di lettura” dei fatti. Consiglio davvero a tutti di leggerlo!
L’edizione italiana del libro, uscita nel 2016
MA DOVE SI TROVA ESATTAMENTE L’ISOLETTA DI LAMB HOLM?
Ecco evidenziata la posizione della minuscola LAMB HOLM all’interno
dell’arcipelago delle ORCADI, al largo della costa settentrionale della SCOZIA
Ringrazio di nuovo l’autore dell’articolo Ilaria Battaini che mi ha aperto un mondo che non conoscevo e naturalmente Stefano Benazzo che mi ha dato lo spunto. Vi invito a visionare il suo sito ricco di splendide foto.
FONTE:
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