29/06/20
Tra le innovazioni che hanno rivoluzionato la guerra navale nel XX secolo c’é sicuramente la portaerei la cui forza è l’associazione di due vettori (aereo e nave) che operano simultaneamente in dimensioni diverse.
Da strumento inizialmente impiegato quasi esclusivamente in appoggio alle operazioni “terrestri”, durante la Prima Guerra Mondiale il mezzo aereo si è rivelato estremamente utile anche nelle rare occasioni nelle quali è stato impiegato sul mare, a sostegno delle manovre navali. Ciò ha lasciato intuire le potenzialità del “nuovo” mezzo, imbarcato ai fini della proiezione di potenza, nonostante lo scetticismo derivante principalmente da una sostanziale ignoranza di una forma di lotta (quella aerea) ancora tutta da approfondire.
L’idea di effettuare operazioni di volo da una nave in movimento era, infatti, considerata dai più una insana aberrazione mentale. Ciò nonostante, le vicende belliche e la continua ricerca di nuovi mezzi per avere la superiorità in mare spinse gli strateghi e gli ingegneri navali e aeronautici a effettuare studi specifici e approfondimenti teorici, per trovare soluzioni innovative che permettessero di sfruttare tutte le potenzialità operative del mezzo aereo imbarcato. La soluzione ipotizzata, un’unità con un ponte di volo lungo quanto la nave stessa, permetteva di raggiungere gli obiettivi prefissati. Le successive esperienze della Seconda Guerra Mondiale evidenzieranno che tale soluzione andrà anche oltre le più ottimistiche speranze degli ideatori, cambiando la fisionomia stessa degli scontri navali.
La prima unità militare costruita allo scopo di diventare una piattaforma mobile per gli aerei che operavano in supporto della forza navale fu la HMS Furious (foto), che cominciò a navigare nel 1917, inquadrata nella squadra navale britannica come incrociatore da battaglia ma impiegata come portaerei sperimentale. Si trattava di un’unità ibrida con un ponte di volo sopraelevato e un hangar, e permetteva l’effettuazione di operazioni di volo da parte di velivoli dotati di ruote gommate. Una rivoluzione epocale se si tiene conto che, prima di quel momento, le (poche) unità che avevano velivoli a bordo (impiegati prevalentemente per ricognizione) venivano letteralmente lanciati in volo con delle catapulte e, una volta terminata l’autonomia, dovevano ammarare (avevano dei pattini che permettevano il galleggiamento) prima di venire recuperati a bordo con una gru. Operazioni lunghe e difficoltose, queste ultime, che costringevano le navi a rimanere immobili sull’acqua fino al termine del recupero, con tutti gli intuibili pericoli in tempo di guerra. La britannica Furious, invece, aveva la capacità di far decollare e appontare i propri velivoli continuando a rimanere in navigazione, con un unico vincolo: mantenere rotta e velocità costanti fino al termine delle operazioni di volo.
Sulla scorta delle esperienze di quella guerra, le principali marine approfondirono gli studi per rendere le portaerei più operativamente efficaci, marcando la sostanziale fine dell’epoca delle corazzate.
Nonostante fossero ancora agli inizi di una nuova era, già allora gli strateghi avevano chiara la notevole differenza esistente tra il teatro operativo della Marina e quello dell’Aeronautica, i diversi impieghi e, di conseguenza, il diverso addestramento cui dovevano essere sottoposti i piloti. Ciò indusse le principali marine, guidate da personaggi lungimiranti, a costituire forze aeree (mezzi, piloti e personale specialistico) dedicate e dipendenti da una catena di Comando che facesse capo ai vertici della Marina.
L’intervallo tra le due guerre vide un notevole sviluppo tecnico di questa nuova unità navale, con soluzioni tecniche e organizzative che rivoluzionarono anche l’aspetto dei nuovi giganti del mare, quali l’abbandono del ponte di volo sopraelevato rispetto alla struttura a favore di unità completamente dedicate alle operazioni di volo, come la Lexington (CV 2 – foto) e la Saratoga (CV 3), che presentavano un aspetto molto simile alle portaerei odierne, dotate di grande ponte di volo e di sottostante hangar con officine. Rapidamente anche Giappone, Regno Unito e Francia si accodarono nella corsa alla portaerei, compatibilmente con le risorse disponibili e i vincoli dettati dagli accordi sottoscritti durante la Conferenza di Washington del 1920-1922. Il 31 agosto 1939, ultimo giorno di pace in Europa, vedeva gli Stati Uniti con 5 portaerei operative e 2 in costruzione, il Regno Unito con 7 operative e 6 in costruzione, il Giappone con 6 e 2, la Francia con una operativa e una in costruzione e la Germania con una portaerei in costruzione.
E l’Italia? Nonostante la conferenza di Washington avesse riconosciuto all’Italia una posizione tra le cinque potenze navali mondiali (a parimerito con la Francia, dopo Stati Uniti, Regno Unito e Giappone) i nostri strateghi ritenevano di non avere bisogno di portaerei, in quanto la penisola era considerata una naturale portaerei protesa sul Mediterraneo. Per quale motivo progettare un’unità che non aveva ragione d’essere?
L’andamento della guerra dimostrò quanto quel ragionamento fosse sbagliato e quanto, invece, fosse utile avere una portaerei inserita nei dispositivi navali, essendo anche capace tra l’altro di risolvere gli scontri senza che le forze avversarie potessero “vedersi” e scambiarsi colpi di cannone, come avvenne a Midway. Il fondamentale ruolo assunto da queste importanti unità è anche sottolineato dal fatto che le portaerei britanniche, per esempio, ebbero un ruolo decisivo nel bloccare e sconfiggere le forze navali tedesche (es.: l’affondamento della Bismarck), nel portare attacchi aerei contro basi navali avversarie (si ricordi la terribile notte di Taranto – foto) e nel rifornire Malta (congiuntamente alla statunitense Wasp – CV 7) con centinaia di velivoli che resero vani i tentativi (peraltro non troppo convinti) di conquistare l’isola, ipotecando la vittoria finale degli Alleati.
Con la devastante esperienza della prima parte del secondo conflitto mondiale, finalmente anche l’Italia comprese l’importanza della portaerei quale unità diventata indispensabile per colmare le gravi lacune operative marittime drammaticamente verificate nel corso del conflitto. Lacune che avevano comportato gravissime perdite di uomini e mezzi, nonostante molte unità maggiori italiane (corazzate e incrociatori) fossero più nuove, più veloci e meglio armate delle loro paritetiche britanniche. Perdite causate troppo frequentemente dalla mancanza di mezzi aerei immediatamente disponibili sul luogo della battaglia navale. Durante il conflitto, infatti, i mezzi aerei erano sotto il comando e controllo dell’Aeronautica, che doveva valutare le richieste di intervento inoltrate volta per volta dalla Marina. L’iter decisionale imposto dalla presenza di due catene di Comando, quindi, allungava sensibilmente i tempi oltre quelli necessari affinché l’eventuale intervento dei velivoli potesse in qualche modo influire sull’esito dei combattimenti. Il principio che aveva dettato un simile raccapricciante approccio derivava dalla falsa idea che tutto ciò che volava doveva essere monopolio della nuova Arma Aeronautica (Leggi del 1923 e del 1925). Decisioni gravi, quindi, ulteriormente esasperate dal fatto che la drammatica realtà era stata prevista dall’ammiraglio Cavagnari che, in qualità di Capo di Stato Maggiore della Marina, prima dell’entrata in guerra dell’Italia elaborò un pro-memoria per Mussolini, con il quale faceva presente proprio quei problemi che si sarebbero successivamente evidenziati nel corso di quella guerra moderna: una insufficiente aviazione navale e lo scarso appoggio che le unità navali potevano attendersi da parte dell’arma aerea.
La storia ci dice che non tener conto di quei consigli causò una permanente situazione di inferiorità tattica nella lotta navale, cui non fu possibile riparare durante il conflitto, visti i tempi necessari per armare unità di quel tipo (la portaerei italiana Aquila – foto – non entrò mai in servizio).
L’assurdità della situazione venutasi a creare per questa totale cecità in materia militare marittima, portò l’ammiraglio Cavagnari a riconoscere, a guerra ormai perduta, “…indispensabile e urgente la creazione di un’aviazione propria della Marina e da questa integralmente impiegata e comandata. E questo perché in mare, sotto il mare e sopra il mare non possono combattere efficacemente che marinai. Ciò é imposto dal carattere dell’ambiente naturale, dalla necessaria omogeneità della preparazione, della mentalità e dell’addestramento e, infine, dalla ancor più necessaria unità di comando…”.
Ancora una volta l’accorato suggerimento cadeva, però, nel vuoto visto che si è dovuti arrivare al 1 febbraio 1989 (Legge n. 36), affinché si riconoscesse la necessità di un’aviazione di Marina operativamente e logisticamente indipendente dall’Aeronautica.
Ciò nonostante, oggi sembra ci sia un ritorno della passata cecità strategica, se si tiene conto della decisione dei vertici della Difesa, favoriti da un assordante silenzio del vertice politico, di dirottare verso l’Aeronautica gli F-35B (STO/VL) destinati alla Marina, bloccando di fatto l’iter per il raggiungimento della piena capacità operativa della portaerei Cavour e condizionando seriamente le capacità operative della Marina in un’area, come il Mediterraneo, che ha un’assoluta centralità geopolitica, essendo teatro di una competizione sempre più aggressiva, e dove le flotte di secondo livello stanno colmando il divario che le separa da quelle più avanzate, fornendo nuovi ed efficaci strumenti operativi per sostenere l’attivismo politico-marittimo di alcuni attori rivieraschi (primo fra tutti la Turchia) per occupare gli spazi lasciati liberi da una Italia rinunciataria, cieca al punto da non vedere che le acque di primario interesse strategico si stanno tingendo con altre tonalità di colore.
La peculiarità delle marine, infatti, è la capacità di allungare il braccio armato dello Stato ovunque sia richiesto, non facendo ricorso alla forza ma essendo pronti a usarla, applicando in sostanza la “naval suasion” prevalentemente per difendere la libertà di navigazione contro i pirati o chiunque agisca per limitare tale libertà, indispensabile per assicurare la libera circolazione delle merci e l’approvvigionamento delle materie prime, in particolare in un mondo globalizzato quale l’attuale.
Ma la capacità operativa delle Marine può essere impiegata anche per la lotta al terrorismo internazionale, al traffico di armi, droga o di esseri umani. Non per nulla, l’impatto delle questioni navali e marittime sulla politica estera dei principali Paesi del mondo è notevolmente aumentata dalla seconda metà del XX secolo.
La sicurezza marittima costituisce un valore innegabile e irrinunciabile di qualunque Stato indipendente, particolarmente oggi, con la globalizzazione e i progressi tecnologici che hanno moltiplicato gli scambi commerciali internazionali, la maggior parte dei quali avviene per via marittima. E le unità portaerei hanno abbondantemente dimostrato di avere sia le capacità di protezione del Gruppo navale sia di proiezione di potenza, garantendo la superiorità aerea laddove necessario in supporto alle operazioni navali condotte a protezione degli interessi nazionali, in particolare in contesti di minaccia elevata.
Se questi concetti e insegnamenti, tutto sommato abbastanza semplici, sono stati compresi e vengono seguiti da sostanzialmente tutte le Marine del mondo un motivo ci sarà.
L’Italia è tra i nove Paesi che possono vantare almeno una portaerei nella propria flotta. Gli Stati Uniti contano 10 unità, il Regno Unito una (foto) e un’altra è in allestimento, la Francia ne possiede una, come Spagna India e Russia, la Cina ne ha due, come l’Italia (Cavour e Garibaldi, che sta tuttavia raggiungendo la fine della sua vita operativa).
Risulta, quindi, ancor più incomprensibile la volontà di allontanare dalla Marina i velivoli in versione navale, accorpando la gestione logistica e operativa di due macchine accomunate solo dal nome, ma dalle caratteristiche operative, logistiche e addestrative sensibilmente diverse, bloccando al contempo l’operatività delle nostre portaerei. Una decisione non solo anacronistica ma anche antieconomica, operativamente autolesionistica e strategicamente cieca, già mirabilmente sintetizzata e stigmatizzata nel “Time” del 4 luglio 1983 (ben 37 anni fa) “…Una nave portaerei senza aerei può paragonarsi a un pescecane senza denti…”.
Una Marina in grado di proiettarsi efficacemente in acque lontane, senza dipendere da basi o aeroporti terrestri nelle vicinanze, assicurando presenza e sorveglianza in aree di importanza strategica del proprio Paese è indispensabile per la tutela degli interessi economici e politici dello Stato, per il suo prestigio internazionale ma anche per poter adeguatamente partecipare sui mari e gli oceani del mondo ai dispositivi navali internazionali operanti sotto egida ONU, NATO, UE o di coalizioni ad-hoc.
La portaerei, ha ormai dimostrato di essere diventata indispensabile in un contesto di lotta moderna sul mare, e non solo. Dai primi timidi e pionieristici impieghi sul finire della Prima Guerra Mondiale, la portaerei è stata oggetto di un’enorme evoluzione tecnologica e concettuale, e ha contribuito a ridisegnare gli schemi degli scontri navali, arrivando a ritagliarsi un fondamentale ruolo anche nel supporto alle operazioni anfibie e a quelle terrestri entro determinati limiti dalla costa.
Ignorare ciò che la storia e la tragica esperienza italiana del secondo conflitto mondiale hanno raccontato (per chi vuole e ha la capacità di comprendere) pone delle serie ipoteche sul prossimo futuro operativo della Marina e sulla sua capacità di tutelare gli interessi nazionali sul mare, per assolvere i quali è indispensabile essere pronti, avere personale perfettamente addestrato ai compiti specifici e un sufficiente numero di mezzi idonei a conseguire gli obiettivi della missione assegnata.
Una questione che risultava chiara già nel 1943, quando Cavagnari chiosava di aver ormai compreso “…il progressivo mutamento del carattere della lotta sul mare … quando la soluzione ottima era vietata (dalle leggi prima ricordate, n.d.A.) e si ricercava l’introvabile compromesso. … la questione del possesso di un’aviazione integralmente e assolutamente propria è fondamentale per la Marina. Non sarà mai possibile risolverla con concessioni e compromessi. Possano i miei successori essere più fortunati di me, realizzando compiutamente quell’aviazione di Marina totalmente fondata e comandata dagli uomini di mare…”.
Sarebbe quindi ora che si smettesse di parlare al presente ma con lo sguardo rivolto a un nostalgico passato, guidati solo da obiettivi di piccolo cabotaggio e dal desiderio di conseguire un “…introvabile compromesso…”, e cominciare a parlare al futuro avendo ben presenti gli interessi nazionali e, quindi, collettivi.
Bloccare inutilmente le capacità operative delle portaerei, unità di punta della Marina, limitandone il ruolo strategico e internazionale, significa ragionare ancora in termini di campanile, arretrando le lancette dell’orologio Italia, che non ne ha alcun bisogno.
Anche se ormai non sono più prevedibili scontri navali simili a quelli del secondo conflitto mondiale, è indubbio che le marine giocano e continueranno a giocare un ruolo politico-militare ed economico fondamentale nel garantire la libertà di navigazione sui mari del mondo e nel tutelare gli interessi vitali del proprio Paese. E una portaerei operativa è, e continuerà a esserlo in futuro, una componente indispensabile per permettere a una Marina moderna di poter assolvere efficacemente la propria missione.
C.V. pil. (ris) Renato Scarfi
Foto: U.S. Marine Corps / web / Marina Militare / Royal Navy