Gli incursori a bordo degli SLC entrano in piena notte nel porto d’Alessandria e colpiscono le navi nemiche
18 dicembre 2015 Emanuele Bianchi
Il sommergibile Sciré si trova a largo del porto d’Alessandria d’Egitto in attesa dell’ordine d’attacco. L’osservazione periscopica rivela traffico in entrata e uscita dal porto. Scatta l’ora x: il comandante Borghese ordina agli operatori di uscire con i “maiali” per colpire gli obiettivi.
Gli scoppi, le fiamme, le navi che si piegano su un fianco. Alcuni operatori vengono catturati ma nessuno, interrogato, rivelerà posizione e ora in cui esploderanno gli ordigni. Le ricognizioni fotografiche sul porto d’Alessandria confermeranno la buona riuscita dell’operazione GA3: danneggiate due corazzate, un cacciatorpediniere e una nave cisterna. E’ stata scritta una pagina di storia mettendo a segno una delle azioni più gloriose per la Marina Militare.
Dopo la partenza dall’isola di Lero, in Grecia (segui le parti precedenti della storia), il sommergibile Sciré naviga nelle acque che lambiscono il porto di Alessandria d’Egitto dove si trovano all’ormeggio numerose navi da battaglia e d’appoggio inglesi. Il comandante del sommergibile, Junio Valerio Borghese, manovra lo Scirè in attesa dell’ordine di avvio dell’operazione GA3, il forzamento del porto militare nemico con mezzi d’assalto.
Racconto tratto da “Mediterraneo e oltre…” di Enrico Cernuschi e Andrea Tirondola
Finalmente, la sera del 17, il comandante Ernesto Forza trasmise allo Scirè l’atteso messaggio: “Presenza accertata due navi da battaglia in posto ormeggio n. 57 et 61 (alt) Gli aerei eseguiranno azioni offensive senza illuminazione dalle 21.30 alle 22.30 questa sera 17 dicembre”.
Il comandante Junio Valerio Borghese ordinò rotta sud, prora 180°, caricate al massimo aria ed energia elettrica, si immerse, alle 02.15 del 18 dicembre, fino a quota 60 metri, per evitare gli sbarramenti minati inglesi.
Nel frattempo il comando in capo della Mediterranean Fleet diramò un messaggio di allerta per il pericolo di incursioni aeree o mezzi d’assalto. La principale forma di difesa attiva si basava, come avveniva ormai da mesi, sul lancio periodico di cariche anti uomo da 5 libbre lanciate dalle navi in pattugliamento nella rada e all’esterno dello sbarramento mobile.
14.00: lo Scirè navigava a quota profonda su un fondale inferiore a 100 m. Borghese decise di avvicinarsi ulteriormente all’obiettivo per agevolare il più possibile l’azione degli incursori ai quali erano già stati assegnati gli obiettivi. La coppia Luigi Durand de La Penne – Emilio Bianchi avrebbe attaccato la nave da battaglia al posto di ormeggio n.57, Antonio Marceglia – Spartaco Schergat quella al posto n.61. Vincenzo Martellotta e Mario Marino avrebbero dovuto attaccare, se fosse stata presente – cosa della quale nessuno era sicuro in verità – una portaerei, in caso contrario, tralasciando qualsiasi altro bersaglio, i due avrebbero dovuto minare una grossa petroliera carica nella speranza, come già accaduto a Gibilterra, che un incendio arrivasse a coinvolgere l’area portuale e le navi all’ormeggio.
18.40: un’esplorazione periscopica confermava la posizione del battello, su un fondale di 17 m, perfettamente in rotta, a sole 1,3 miglia dal porto di Alessandria. Il tempo era bello e senza vento e Borghese aveva confermato, come già in precedenti azioni di guerra, di possedere straordinarie doti manovrando sempre con estrema precisione la sua unità nella difficile navigazione in immersione.
20.47: dopo una breve osservazione al periscopio Borghese portò il battello in affioramento. Il portello della falsa torre fu aperto. Agli operatori di riserva Giorgio Spaccarelli e Luigi Feltrinelli spettava il compito di dare assistenza in acqua ai colleghi e predisporre un cavo di collegamento fra i tre SLC (Siluri a Lenta Corsa) per navigare insieme. Lo Scirè si posò lentamente sul fondo per estrarre i mezzi d’assalto dai cilindri contenitori. Tutto regolare salvo che per l’SLC 223 che a causa di un difetto di costruzione al portello del cassone tardò ad aprirsi tanto che, nonostante gli sforzi di Martellotta e Marino, non si apriva più di 30°. I due chiesero aiuto al sottotenente Spaccarelli e insieme aprirono il portello quel tanto che bastava per estrarre il mezzo d’assalto.
Le tre coppie di incursori iniziarono subito l’avvicinamento al porto, navigando insieme. La navigazione procedette in superficie o, meglio, in affioramento, con un assetto leggermente appoppato, in modo che l’ufficiale al comando di ciascun SLC rimanesse, a proravia, con la testa fuor d’acqua, potendo così vedere intorno a sé. Questa procedura assicurava il vantaggio di respirare liberamente per contro il secondo operatore rimaneva completamente immerso ricorrendo, di conseguenza, all’autorespiratore.
Dopo aver superato senza difficoltà uno sbarramento minato i tre SLC arrivarono a circa 500 m dalla diga del porto militare; gli equipaggi si fermarono per qualche istante per rifocillarsi, prima dell’attacco finale. Da quel momento le loro strade si sarebbero separate. Nel frattempo, alle 21.28 lo Scirè affiorava per recuperare Feltrinelli e Spaccarelli. Quest’ultimo era svenuto per lo sforzo sostenuto per aprire il portello bloccato. Soccorso da Armando Favale e Armando Memoli, membri del secondo equipaggio di riserva, giunse a bordo con gravi sintomi di asfissia e solo dopo due ore di rianimazione riprese i sensi.
I mezzi d’assalto si addentrarono nelle acque del porto, alla ricerca dei propri bersagli. La coppia de La Penne-Bianchi si avvicinò alla corazzata Valiant, superando, con qualche difficoltà, lo sbarramento reti a protezione di quella grande unità, per poi immergersi diretta verso il centro nave, sul lato sinistro. Dopo pochi minuti la prua del “maiale” impattò contro la carena della corazzata. Come convenuto, Emilio Bianchi iniziò, nel buio più assoluto, a cercare a tentoni l’aletta di rollio cui agganciare la cima per fissare la carica mentre il mezzo d’assalto, disposto parallelamente alla Valiant, procedeva lentamente, per una ventina di metri, verso la prua del bersaglio. Ogni tentativo di trovare l’aletta fu, però, vano, fino a quando il motore dello SLC si fermò improvvisamente, per un’avaria. Il maiale rimase inerte su un fondale di 13 m, vicino alla torre A della corazzata. Dopo avere fatto verificare a Bianchi che le eliche fossero intatte e libere da intralci, de La Penne effettuò una rapida ricognizione in superficie utilizzando l’“ascensore”, un cavetto collegato al mezzo d’assalto da percorrere a ritroso, tipo “filo d’Arianna”, per ritrovarlo, nell’oscurità più completa. Al ritorno dell’ufficiale Bianchi iniziò a sentirsi male per gli sforzi e un probabile guasto al suo autorespiratore.
Si decise quindi di salire in superficie col medesimo sistema ma, in questa fase, perse definitivamente i sensi. Riavutosi, poco dopo essere riemerso, respirando finalmente aria fresca, l’operatore si trovò supino, a circa 4 m dalla nave, illuminato da un proiettore e con marinai inglesi che gli rivolgevano, dalla coperta, frasi incomprensibili con l’evidente tono di domanda. Non rispose e raggiunse a nuoto una boa d’ormeggio sul lato dritto, a prua della corazzata. Nel frattempo, rimasto solo e conscio del fatto che il suo “maiale” non si trovava sotto la carena del Valiant, ma leggermente scostato dalla nave, de La Penne, come già Gino Birindelli un anno prima, pensò di trascinare in qualsiasi modo il pesante mezzo verso l’unità nemica fino a quando, esausto e al limite anch’egli del collasso, avviò le spolette della carica e risalì in superficie.
Subito individuato dai proiettori di bordo e fatto segno di raffiche di mitra a scopo intimidatorio, de La Penne raggiunse Bianchi sulla boa. I due incursori furono presi a bordo di una motobarca e portati sul Valiant. Dopo una prima, sommaria perquisizione furono interrogati, invano, da un ufficiale che parlava l’italiano, il sub-lieutenant Nowson del Queen Elizabeth, chiamato apposta a bordo della nave gemella. Gli incursori italiani furono quindi trasferiti a terra, a Ras el Tin, nei locali del Naval Intelligence Centre, in compagnia di Nowson e dello stesso Captain Charles Morgan, comandante del Valiant. Interrogati separatamente dal maggiore dei Royal Marines Humphrey Quill e nonostante fosse stata minacciata un’immediata fucilazione a scopo intimidatorio, de La Penne e Bianchi non parlarono. L’ammiraglio Andrew Cunningham, informato, nel frattempo, dell’avvenuta cattura di due uomini e del loro silenzio, ordinò che gli italiani fossero riportati a bordo e rinchiusi in locali sottocoperta.
L’intenzione, come avrebbe scritto, in seguito, lo stesso comandante della Mediterranean Fleet era di indurli a parlare. Ricondotti a bordo e inutilmente interrogati, una volta di più i due incursori furono condotti sottocoperta nei depositi collocati fra le due torri prodiere.
05.45: de La Penne chiese di conferire col comandante della Nave. Lo informò, quindi, che di lì a poco ci sarebbero state delle esplosioni. Al suo rinnovato rifiuto di aggiungere altro e, in primis, di rivelare dove era collocata la carica, Charles Morgan lo fece ricondurre sottocoperta. Il comandante inglese aveva ordinato di passare un cavo sotto lo scafo per individuare l’esplosivo, ma si era trattato di una ricerca senza risultato, dato che il “maiale” era poggiato sul fondo. Mentre l’equipaggio della corazzata veniva radunato, per misura precauzionale e, in fondo, senza crederci troppo, in coperta a poppa, fu ordinata la chiusura della portelleria stagna. Negli stessi minuti Bianchi veniva condotto in un quadrato.
06.06: è l’ora dell’esplosione, definita in seguito da Bianchi “apocalittica, come il tuono di un vulcano, seguita da una vibrazione intensa, sismica, di pochi attimi. Poi un cupo silenzio interrotto a breve da voci concitate del personale di bordo”. Mentre la nave incominciava subito a sbandare visibilmente sulla sinistra, Bianchi, rimasto incolume, poté raggiungere senza difficoltà la coperta. De la Penne, rimasto ferito a un ginocchio e alla testa, riuscì ad aprire il portello del locale dov’era rinchiuso e a salire in coperta.
Nel frattempo, alle 05.47, avveniva l’esplosione della carica collocata da Martellotta e Marino sotto la Sagona; anch’essa fu udita distintamente a bordo del Valiant. Dalla coperta della corazzata, prima di essere condotti a terra verso la prigionia, de La Penne e Bianchi assistettero all’esplosione della carica collocata da Marceglia e Schergat sotto il Queen Elizabeth, il cui attacco fu condotto, in tutto e per tutto, da manuale.
Dopo essere entrati nel porto e avere superato senza difficoltà le reti poste intorno al loro obiettivo, i due operatori istriani si immersero fin sotto la carena della corazzata inglese, nave di bandiera dell’ammiraglio Cunningham. L’unico inconveniente ebbe luogo quando Schergat, dopo avere assicurato la cima di sostegno della testa esplosiva alle alette di rollio, notò che Marceglia si sentiva male. L’ufficiale terminò da solo l’operazione, attivando le spolette e risalendo in superficie col proprio secondo, riavutosi poco dopo.
Alle 04.30, dopo avere affondato il proprio SLC e gli autorespiratori, i due incursori raggiunsero, a nuoto, una spiaggetta, dove si tolsero le mute, nascondendole sotto alcuni sassi. Rimboccatesi le maniche e il colletto dell’uniforme da lavoro, pur indossando a ogni effetto un’uniforme italiana, cercarono di farsi passare, con un po’ di buona volontà, per marinai francesi appartenenti alla squadra internata in quel porto sin dal luglio 1940. Proprio mentre si dirigevano verso la città nel tentativo di percorrere la prima tappa di un eventuale, non meno avventuroso, rimpatrio udirono distintamente, attorno alle 06.00, “uno scoppio abbastanza leggero”. Era l’esplosione della loro carica, i cui devastanti effetti furono subito evidenti a de La Penne e Bianchi. Videro infatti il Queen Elizabeth sollevarsi ed eruttare dal fumaiolo pezzi di acciaio e nafta.
L’ammiraglio Cunningham in quel momento a bordo della propria nave di bandiera, scrisse, nelle proprie memorie: “Quand’ero a poppa dritta della Queen Elizabeth, vicino all’asta della bandiera, avvertii un forte rumore sordo e fui lanciato in aria per un metro e mezzo ma fui tanto fortunato da non cadere malamente. Vidi una grande colonna di fumo nero levarsi dal fumaiolo e un punto immediatamente a prora e compresi subito che la nave era stata gravemente danneggiata. Il Valiant aveva già la prora sott’acqua. La Queen Elizabeth sbandò fortemente sulla dritta.”
Entrati nel Western Harbour, Martellotta e Marino cercarono di individuare la sperata portaerei all’ormeggio senza trovarla. Incominciarono quindi la ricerca del bersaglio alternativo. Diretto verso i posti di ormeggio delle petroliere Martellotta individuò una grossa cisterna carica, che stimò essere sulle 16.000 t, e decise di attaccarla. Nel frattempo, anch’egli fu colto da un forte mal di testa e da conati di vomito che gli impedirono di trattenere il boccaglio e, quindi, di immergersi. Giunti, navigando in superficie, sottobordo al bersaglio, la petroliera norvegese Sagona, Martellotta spiegò a Marino la situazione dandogli istruzioni per completare, da solo, la manovra d’attacco in immersione. Mentre il suo secondo assicurava la carica alla carena del bersaglio, Martellotta si avvide che si stava affiancando alla Sagona per l’ormeggio quella che, sulle prime, scambiò per una piccola petroliera. Era, invece, il cacciatorpediniere Jervis, entrato in porto alle ore 02.42 assieme alle altre unità della 14th Destroyer Flotilla, ormeggiatosi di controbordo per rifornirsi. Dopo avere seminato nel porto sei bombe incendiarie (poi rivelatesi inefficaci, come già a Gibilterra), i due operatori affondarono il mezzo d’assalto e raggiunsero a nuoto il molo carboni, si cambiarono avviandosi verso la città. Furono fermati e arrestati alla prima barriera. Ciò avveniva, secondo il rapporto della polizia, alle 05.45: due minuti dopo la loro carica esplodeva sotto la Sagona, danneggiando gravemente, come auspicato, anche il Jervis.
La Sagona ebbe la sezione poppiera distrutta e si posò sul fondo a seguito dell’allagamento della sala macchine. Non si constatarono però seri danni ai serbatoi e delle 12.000 t di carburante se ne sversò in mare solo una minima parte. La cisterna rimase nel porto alessandrino sino al termine della guerra, venendo utilizzata come deposito di carburante. L’esplosione della testa dell’SLC 223 danneggiò anche la prua del Jervis, il quale ne ebbe per un mese di lavori in bacino. L’esplosione della carica sotto la corazzata Valiant, anche se avvenuta sul fondale e non sotto la nave e sul fianco sinistro (fra le torri A e B), provocò l’allagamento di entrambi i depositi munizioni (cariche di lancio e teste) della torre A da 381 mm.
Nell’esplosione morirono otto marinai inglesi (quattro sottufficiali e altrettanti marinai fuochisti). I danni inferti alla Mediterranean Fleet ebbero, per gli uomini dei mezzi d’assalto e per l’intera Regia Marina, un significato morale ed etico di straordinario valore, che ripagava anni di sacrifici e sforzi silenziosi.
Ai sei operatori fu conferita la Medaglia d’Oro al valore militare, venendo inoltre promossi per merito di guerra. Al comandante Borghese, già insignito della massima decorazione al valore militare, fu conferita la croce di cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, data la rilevanza strategica delle sue doti di comando.
Rapporto del comandante Borghese sulla 3° FASE (operativa): Lero-Alessandria-Lero
18 dicembre 1941 ore 02,15: fondale m. 400, presupponendo che da questo fondale possa avere inizio il campo minato, prendo l’immersione e mi tengo a quota 60. Navigazione sulla batometrica. Andatura silenziosa al minimo a giri sfasati. Procedo così per tutto il giorno compiendo frequenti rigenerazioni e riossigenazioni in modo da mantenere l’aria pura e fresca a beneficio degli operatori;
- 14.00: fondale diminuisce rapidamente sotto i 100 m. Tenuto presente che l’acqua è molto torbida, come si rileva al periscopio, e la necessità di far uscire gli operatori lasciando loro almeno 10 ore di buio assicurato, decido di proseguire nell’avvicinamento anche a quota bassa nelle ore diurne;
- 15.00: fondale m. 50, quota 35;
- 17.40: esplorazione periscopica, con l’osservazione della costa mi accorgo di essere perfettamente in rotta;
- 18.40: posa sul fondo a m. 17, inizio allagamento cilindri con acqua in assetto;
- 20.47: fondale m. 15, in affioramento apro portello torretta. Escono gli operatori e i due uomini di riserva: Ten. D.M. Feltrinelli e S.T. medico Spaccarelli; posa sul fondo;
- 21.28: al segnale convenuto, battuto sullo scafo, esco in affioramento per recupero operatori di riserva. Spaccarelli presenta gravissimi sintomi di asfissia, gli vengono immediatamente praticate le cure del caso (respirazione artificiale – inalazione ossigeno);
- 21.33: constato subito che i cilindri poppieri sono rimasti coi portelli aperti, il che rende difficile la tenuta in quota e in assetto del sommergibile;
- 23.30: allontanatomi di qualche miglio dalla costa, decido di emergere per chiudere i cilindri poppieri;
- 23.34: rapida per avvistamento di un bengala sulla sinistra. A causa dei cilindri aperti il sommergibile prende un appoppamento di circa 50°, il che provoca, come in seguito verificato, lieve versamento di acido dalle batterie;
- 23.35: Decido di riemergere (idrofoni negativi) e procedere al riassetto dell’acqua di rodaggio. Il faro di Ras-el-Tin è acceso. Luci varie sulla costa e numerosi bengala nella zona di mare antistante il porto di Alessandria. Deve esservi traffico di unità in entrata o in uscita e penso questo favorisca l’azione degli operatori. I cilindri poppieri non possono essere chiusi per avaria a uno dei portelloni. Decido pertanto di fissarli solidamente aperti e vario l’assetto in conseguenza (1 tonnellata di peso in più a poppa).
19 dicembre, ore 00.05: riordino l’assetto, riprendo in immersione la rotta di allontanamento. Ritengo dover mantenere l’immersione sia per non destare con l’eventuale scoperta, l’allarme nella piazza, il che comprometterebbe l’esito della missione degli SLC e la zona attraversata potrebbe essere minata;
- 01.00: dopo alcune ore di respirazione artificiale, il dottor Spaccarelli comincia a riprendere vita;
- 17.48: possibilità di fondale minato, emersione, dopo 39 ore; mare e vento calmi, carica, rotta di allontanamento;
- 18.21: do il segnale di eseguita missione che non viene ricevuto da Roma;
- dalle 18.45 alle 20.15: proiettori ad Alessandria;
- 22.30: in seguito all’avvistamento di alcuni razzi, immersione per ascolto idrofonico, turbine in zona;
- 20 dicembre ore 03.30: ripeto segnale eseguita missione;
- 16.35: emersione, si procede per le rotte di rientro;
- 22.17: trasmetto a Rodi richiesta mezzo per sbarco Sotto Tenente medico Spaccarelli a Capo Prassonisi. Il telegramma non viene ricevuto e non lo ripeto.
- 22.25: si riceve da Supermarina: “ricognizione fotografica fa ritenere colpite due navi da battaglia”, entusiasmo;
- 22 dicembre ore 08.30: sul punto D di Rodi (Capo Frassonisi) non essendovi il mezzo richiesto procedo per Lero;
- 19.00: ormeggiato alla banchina sommergibili di Portolago.