“E i francesi ci rispettano, che le balle ancora gli girano…”.
L’ammiraglio De Giorgi racconta lo sbarco italiano in Libano del 2006
L’operazione comincia dopo la guerra del 2006 tra Hezbollah e Israele: bombardamenti, interruzione dei collegamenti marittimi e aerei, distruzione e un senso diffuso di confusione generale sono lo scenario quotidiano del (di nuovo) martoriato Paese dei cedri.
Nel dolce e sfortunato Libano non c’è più nemmeno il carburante per produrre energia elettrica. Gli stessi frigoriferi hanno smesso di funzionare. Intanto Hezbollah, annodato alle maglie profonde della società libanese, cavalca il disagio sociale per dare l’ultimo scossone e far cadere il governo del sunnita Fouad Siniora.
La Francia si ricorda di essere la matrigna di una terra arrivata alla modernità in cambio del suo profilo morbido e occidentale, unico nel mondo arabo. Se ne ricorda soprattutto quando i suoi interessi sono in pericolo, rischiando di vanificare decenni di connessioni e intrecci che comunque fanno storia. Nei bistrot eleganti di Beirut, frequentati dalla borghesia istruita, “on parle français, rien à dire”.
Parigi si offre di mandare 2000 soldati che però tardano e alla fine non partono nemmeno. Tra un ripensamento e un’attesa, il contingente transalpino si riduce a 200 uomini, insufficienti per tutto, soprattutto per dare un segnale importante alla comunità internazionale.
La palla rimbalza e arriva a Prodi che annuncia l’invio di 1000 italiani.
Occasione o solita pezza dovuta agli alleati?
Sul momento è difficile valutare, fatto è che la notizia è ufficiale: in Libano arrivano i nostri, anzi ci tornano.
La palla rimbalzata passa dalla politica alla Difesa che ha il difficile compito di organizzare l’intervento.
Per una strana combinazione astrale, la Marina Militare si trova con tutte e tre le navi anfibie in stato di efficienza operativa. L’evento, raro per questioni di ordinaria manutenzione, viene preso come segno di un destino ineluttabile.
L’ammiraglio De Giorgi, appoggiato appena allo schienale della poltrona, inizia a parlare. Il suo tono di voce è sicuro. Con gli occhi trasmette sicurezza e bontà d’animo. Nell’ironia delle sue parole, fa capolino una curiosità non comune tra chi è abituato a decidere e comandare:
Al tempo comandavo le forze d’altura, costituite da tutte le navi maggiori della Marina. Il mio vice era il comandante del cosiddetto Gruppo navale italiano. Era lui che avrebbe dovuto staccarsi dal comando principale, prendere le forze assegnate e partire. L’ammiraglio Di Paola decise tuttavia che fossi io a guidare l’operazione.
Mi arrivò l’ordine mentre ero in spiaggia a Taranto con mia moglie e l’ammiraglio Branciforte, comandante in capo della squadra.
“Ammiraglio devi partire per il Libano…”
Mi recai direttamente a bordo di Nave Garibaldi per procedere all’approntamento assieme al mio staff.
La pianificazione fu fatta in navigazione perché non c’erano altri margini per prepararsi.
Il vantaggio di una nave comando, particolarità della Marina, è che a differenza di altre forze armate non serve un mese per approntare i dettagli di una missione. La nave, in porto a Taranto o in missione, aveva costantemente uno staff pronto ed operativo.
Da Taranto, dopo la cerimonia, feci fare rotta alla Garibaldi alla massima velocità: 25 nodi. Le navi onerarie, il San Giusto, il San Giorgio ed il San Marco seguivano a 14 nodi. Questo mi consentì di arrivare 30 ore prima.
A 200 miglia, con un SH-3D, raggiunsi terra con una scorta di incursori. Anticipando così ulteriormente il mio arrivo.
L’area di sbarco su cui premeva la componente Esercito era a 50 chilometri di strada da Beirut. Lo stato maggiore dell’Esercito ed il Comando Operativo interforze chiedevano uno “sbarco amministrativo”, così da non dare nell’occhio: si entra in porto, il personale scende come da un traghetto e buona notte…
Si voleva ridurre la caratura militare dell’operazione minimizzando il ruolo della Marina. Fortunatamente alla fine prevalse il buon senso: vennero individuate due spiagge poco a sud della capitale.
Nelle vicinanze c’era un santuario delle tartarughe. Dovemmo effettuare perfino una ricognizione per evitare azioni politicamente scorrette e ripercussioni d’immagine su tutta l’operazione.
La vista di Beirut era struggente. La conoscevo bene: dolce e maliziosa, accogliente come una donna facile in una notte d’estate, sembrava questa volta ancora offesa dalla guerra.
Colonne di fumo in diversi punti della città erano un cattivo sintomo. Atterrai su una banchina del porto, dove l’addetto militare italiano era già fermo ad aspettarci.
Raggiungemmo l’ambasciata con un convoglio di macchine blindate. Con l’ambasciatore facemmo il punto della situazione per poi raggiungere lo Stato maggiore della Difesa libanese e spiegare il nostro piano di operazione.
Il taglio di luce sulla Corniche (la strada che costeggia il mare tra il Downtown e Hamra) rimaneva un’oasi di bei ricordi, corrotti appena dallo stato di cose. Provai a non distrarmi davanti all’ebbrezza del tramonto su un mare blu indaco, tanto difficile e tanto familiare.
Le suggestioni lasciano posto ai piani militari. L’ammiraglio De Giorgi si reca in tutta fretta in elicottero a Naqoura per incontrare il generale francese Alain Pellegrini, capo dell’UNIFIL. Tocca proprio a lui salire sul Garibaldi e trovare gli AV-8 armati sul ponte di volo. Ogni tanto al mondo (e ai francesi soprattutto) conviene ricordare che gli italiani non sono solo spaghetti e mandolino….
La mossa è efficace: Pellegrini rimane molto colpito dagli assetti. In centrale operativa il suo atteggiamento cambia rispetto al primo approccio con De Giorgi: da militare francese un po’ presuntuoso, diventa collega pronto a collaborare.
Continua l’ammiraglio, con gli occhi ancora pieni di immagini.
Ci mettemmo d’accordo sull’operazione e appena arrivate le altre navi cominciammo lo sbarco: 1100 uomini senza nessun incidente o imprevisto. Fu il più grande sbarco italiano non addestrativo dal dopoguerra.
All’alba mandammo i sommozzatori a fare un controllo antimine; poi toccò agli elicotteri, agli AV7 e al resto dei mezzi….
C’erano mine?
Non ne trovammo.
D’altra parte la Marina libanese…
Praticamente non esisteva.
A quel punto l’operazione sembra terminata. Da Roma premono perché le navi rientrino per l’esercitazione Mare Aperto. Per l’Italia sembra non esserci alcun ruolo di rilievo in Libano.
De Giorgi si reca a salutare il capo di stato maggiore della Difesa libanese con ancora in corso il blocco aeronavale israeliano. All’ammiraglio viene riferito che il Primo ministro voleva incontrarlo.
Continua De Giorgi, sempre più immerso nelle suggestioni del racconto.
Perplessi, io e l’ambasciatore Mistretta, andammo. Il primo ministro, dopo qualche formalità, mi chiese se ero in grado di far togliere il blocco navale agli israeliani. Doveva nascere una task force dell’ONU e sarebbe dovuta andare ai tedeschi. Dal momento che il processo parlamentare tedesco è lunghissimo, peggiore persino del nostro, e dal momento che la Deutsche Marine era ancora in Germania e ci sarebbero voluti oltre 40 giorni per attivare la task force anticontrabbando di armi, risposi d’istinto di sì. Avevamo una portaerei e i mezzi necessari.
“Telefoni a Prodi” fu ovviamente la mia raccomandazione.
Dopo l’incontro, con l’ambasciatore, andammo a cena in un ristorante non lontano dal lungomare. Era dietro uno dei terrapieni approntati per evitare che i 76mm delle cannoniere israeliane colpissero la città. Beirut sembrava abituata a queste umiliazioni. Dolce vita e morte continuavano a correre a fianco. Il lusso e la luce s’intrecciavano con la miseria e il buio.
Proprio al ristorante, squillò il telefono dell’ambasciatore Mistretta: era il suo collega francese che nemmeno mezz’ora dopo aveva saputo della richiesta libanese… Era furioso!
Iniziò così una competizione con la Francia, intenzionata a non farsi estromettere dalla partita dagli italiani. Il Libano, a sentirli, rimaneva sempre casa loro…
C’era anche un ammiraglio francese nell’area con alcune navi.
Ricordo che parlando con l’ammiraglio Di Paola e l’ammiraglio Binelli Mantelli si raccomandarono di trovare un accordo.
Raggiunsi in elicottero l’ammiraglio Magne per illustrare il piano predisposto: protocollo con Marina libanese e ONU; divisione della competenza tra costa meridionale libanese a Roma e costa settentrionale, corrispondente all’area di maggior influenza francese, a Parigi. Il collega sembrò soddisfatto.
Tornai al mio comando dopo aver lasciato al francese la bozza del progetto, in un’ottica di massima apertura e collaborazione. Lui la trasmise al proprio Comando.
In breve il mio elaborato arrivò all’ONU, ma rimodulato come fosse stata un’idea francese! Oltre a questo furono mandate lettere di invito a Inghilterra, Grecia e addirittura Italia a porsi sotto il comando della Francia.
Quando mi accorsi del loro comportamento mi regolai di conseguenza, giocando d’astuzia. Al colpo basso reagii proseguendo il lavoro di coinvolgimento di libanesi e di militari e civili dell’ONU a bordo delle nostre navi. Lo stesso Pellegrini non ci era avverso!
A quel punto però bisognava sparigliare!
La chiave erano gli israeliani.
Organizzai, grazie all’aiuto dei nostri servizi segreti, un incontro con un rappresentante israeliano con delega ad assumere decisioni.
Una notte, in gran segreto, De Giorgi vola ad Haifa in elicottero. Dopo un volo avventuroso a bassissima quota a 50 miglia al largo per uscire dalla rilevazione radar libanese, in borghese, l’ammiraglio raggiunge un punto determinato salendo a 1000 piedi. L’elicottero chiama il controllo israeliano già in attesa degli italiani e pronto a guidarli a destinazione: una piazzola a ridosso di un ospedale, tra gente con la sedia a rotelle, malati ciondolanti e persone attaccate alle flebo.
Sembrava un film: si formò subito un perimetro di militari. Ricordo una soldatessa in particolare, bella come un’attrice: capelli neri, lunghi, sciolti, occhiali a specchio e fucile mitragliatore…
Con un pulmino anonimo, dopo molte stradine secondarie, ci portarono in una piazzetta. Varcato un portoncino metallico azzurro, dopo essere scesi per alcune rampe di scale in cemento armato, mi trovai in un bunker sotterraneo. Era una centrale operativa della Marina israeliana.
Incontrai il vice comandante della Marina, l’ammiraglio Zur.
Mostrai il protocollo d’intesa. Lui si allontanò con il documento. Dopo un’attesa di 20 minuti mi disse che se avessi fatto firmare il documento all’ONU e ai libanesi avrei avuto la sua parola d’onore che il blocco israeliano sarebbe stato tolto. Stretta di mano, due pasticcini, e ritorno a tutta velocità dal capo della Marina libanese, con cui nel frattempo avevo stretto una vera amicizia. Mi confermò la disponibilità che mi aspettavo.
La mossa decisiva la fece il primo ministro israeliano Olmert che si disse (senza parlare dell’incontro) felice di passare agli italiani la responsabilità del blocco navale. Tolse così ogni alibi al segretario generale dell’ONU: davanti all’opinione pubblica mondiale e soprattutto libanese non c’erano più ostacoli.
I francesi fino all’ultimo cercarono di impedire l’accordo mettendo in dubbio la nostra prontezza e capacità.
Mentre ero in mare mi chiamò nuovamente Pellegrini chiedendo se avevo la delega da parte del governo italiano. Mi fiondai a Naqoura in elicottero (era il 7 settembre, ndr) e dopo breve arrivò il documento firmato dalle autorità libanesi.
Copiato da una bozza errata non riportava una frase per noi fondamentale! Risolvemmo in un quarto d’ora l’errore di battitura grazie alla pronta disponibilità dei colleghi libanesi; a quel punto mancava solo la firma di Pellegrini. Al telefono con il segretario generale dell’ONU presentò la situazione: documento sottoscritto dalle autorità libanesi e ammiraglio italiano presente…
“Allora firma!” fu l’indicazione. E lui firmò.
Poco dopo, in mia presenza, gli arrivò la chiamata da parte di un rappresentante francese che si arrabbiò moltissimo per la sottoscrizione dell’accordo.
“Gli italiani sono pronti e sono già qua. Il segretario generale ha detto di firmare e io l’ho fatto!” fu la risposta decisa di Pellegrini, piccato con i suoi stessi connazionali.
Il generale veniva dalla Fanteria di Marina (che in Francia è inquadrata nell’Esercito) e aveva trascorso l’intera vita servendo in Vietnam, Cambogia, Africa e Medio Oriente. Durante la guerra civile aveva anche salvato la vita al generale maronita Aoun (oggi presidente del Libano) nell’attentato in cui persero la vita 200 marines USA. Allora giovane capitano, lo aveva estratto dalle macerie ferito e insieme avevano atteso i soccorsi!
Con la firma del documento, gli italiani festeggiano alla mensa di Naqoura, gustando i piatti del cuoco indiano.
Il mattino dopo, sapendo l’effetto scenografico di un vascello importante come il Garibaldi (dopo mesi in cui non si vedevano navi amiche in rada), De Giorgi fa posizionare la nostra ammiraglia a 700 metri dai grattacieli di Beirut. Fa anche issare un enorme tricolore sull’albero più alto.
Sbarca in motoscafo, indossando la visibilissima uniforme bianca e si reca nella simbolica Place des Martyrs al monumento dei caduti libanesi; lì, depone una corona e formalizza l’assunzione di responsabilità dell’operazione.
Gli israeliani intanto mantengono le posizioni. La cosa desta preoccupazione fino all’arrivo di una chiamata in C.O.C. (Centrale Operativa di Combattimento): l’ammiraglio israeliano incontrato ad Haifa poco prima, solleva un problema via satellite.
De Giorgi ricorda ogni momento di quella fase concitata.
Ecco! Ora, dopo aver annunciato una soluzione, salta fuori l’imprevisto che manda tutto all’aria… è una figuraccia a livello mondiale, pensai.
Cosa stava accadendo?
Facile da immaginare. I francesi facevano pressioni sugli israeliani affinché non accettassero, screditando la nostra prontezza e la nostra capacità di attrarre collaborazione a livello internazionale (secondo loro nessun Paese si sarebbe posto sotto il nostro comando).
“Ma voi siete in posizione?” la domanda.
“Sì” la mia risposta.
“E siete pronti?” la replica.
“Sì, abbiamo il naviglio e gli uomini necessari”.
Al terzo contatto con l’ammiraglio, nel giro di mezz’ora, mi fu riferito che sarei stato contattato dal comandante della flottiglia israeliana per il passaggio di responsabilità nel controllo delle acque libanesi. Così avvenne.
Passate neanche un paio d’ore dall’evento, arrivò la prima fregata inglese che chiedeva di passare ai nostri ordini. Sinteticamente feci ritrasmettere un “Permission granted”. Il comandante mi raggiunse a bordo di un Linx sulla Garibaldi per incontrarmi. Furono i primi, seguiti poche ore dopo dai greci, tradizionalmente molto filo-britannici.
Il giorno seguente arrivarono anche i francesi con due navi…
Molto antipaticamente esordirono spiegando che non sarebbero stati ai nostri ordini, ma che avrebbero notificato la propria area di operazioni…
“Negativo” fu la mia risposta.
“Se volete partecipare all’operazione, farete come gli altri e vi posizionerete dove ritengo, secondo la mia valutazione!”
Ovviamente non informai dell’episodio Roma, altrimenti mi avrebbero ordinato di soprassedere e accettare le condizioni dei francesi.
Ammiraglio a cosa fu dovuto il successo?
A diversi fattori.
Innanzitutto l’aver coinvolto direttamente e con rispetto le autorità civili e militari libanesi. Molti avevano anche frequentato l’Accademia Navale di Livorno; un tenente di vascello libanese che collaborava con noi addirittura trovò a bordo i suoi paricorso d’Accademia!
Il secondo fattore fu disporre di una catena di comando molto corta. Parlavo direttamente con l’ammiraglio Di Paola, il capo della nostra Difesa, mentre i colleghi francesi avevano tempi di risposta decisamente più lunghi.
Di Paola, scavalcando le normali procedure, aveva formalizzato una dipendenza diretta. Persona competente e colta, mi chiamava due volte al giorno. Ero riuscito a farmi passare direttamente le sue chiamate in cabina senza ulteriori formalità o attese. Lo sentivo già alle 6 e 30 del mattino quando io a letto o in mutande in giro per l’alloggio, rispondevo al suo “Giuseppe allora?” come fossi in Centrale Operativa.
“Ma non dormi mai?” mi chiedeva talvolta…
L’ordine più bello ricevuto nella mia vita me lo impartì proprio lui: nell’imminenza della firma dell’accordo per il Libano mi disse “Fai come credi ma porta a casa il risultato”. Avevo ricevuto carta bianca da un grande uomo!
Altra nazione che aveva maldigerito il tutto, era la Germania. Pesava moltissimo il non apparire come primo Paese della Maritime Task Force. Quando fummo in prossimità dell’hand-over (passaggio di responsabilità, ndr), premettero per effettuare la cerimonia a Naqoura. Io insistei e la feci approntare sul ponte della Garibaldi.
Sulla portaerei avevo attivato una cellula che si occupava di information warfare e relazioni pubbliche. Vennero centinaia di libanesi in visita.
L’utilizzo di una simile unità fu inizialmente osteggiato insieme alla presenza degli AV-8. Si doveva evitare di dare un’immagine troppo bellica dell’Italia. In questo Di Paola fu encomiabile nel comprenderne invece le potenzialità.
Gli Harrier per esempio, si rivelarono utilissimi come pattugliatori marittimi: erano gli unici caccia italiani dotati di VHF marittimo, la frequenza utilizzata anche dalle barche a vela. Ricordo una registrazione tra un nostro velivolo ed una nave, segnalata dai nostri servizi, come possibile mezzo di contrabbando: il comandante, balbettando, non riusciva a capire chi li stesse monitorando, avendo mare libero tutto attorno. Non immaginava che qualcuno fosse sulla sua verticale a 20.000 piedi…
Grazie agli EH101 con l’Early Warning rilevavamo bersagli a 160 chilometri! Fu una grande prova di capacità operativa!
L’intraprendenza di De Giorgi ha messo in luce una delle difficoltà maggiori che devono fronteggiare i militari italiani: l’uso della forza. L’ammiraglio ne ha discusso con i vertici della Difesa e con lo stesso ministro Pinotti. Inutilmente.
Operiamo vincolati al codice militare di pace in cui esiste solo l’autodifesa. Se si vuole essere credibili, una volta identificato un pericolo (un soggetto ostile pronto ad un’imboscata per esempio) si dovrebbe essere liberi di intervenire, non aspettare di subire l’attacco prima di rispondere al fuoco.
Non ha mai avuto timori o dubbi nel rappresentare l’Italia di fronte a tante difficoltà e “finti amici”?
Ho sempre amato il detto di Nelson ”Se avete dubbi, in mancanza di ordini, nessuno vi potrà mai criticare se attaccherete una nave nemica”.
L’ammiraglio De Giorgi sorseggia un caffè. Sembra felice di aver rivissuto a parole un momento importante della sua vita e del nostro Paese.
Sono passati anni. Oggi le coste del Libano sono più tranquille; i rombi della guerra riecheggiano verso l’interno oltre le montagne che portano in Siria. I ristoranti e i locali a ridosso della Corniche sono pieni di vita e il sole, puntuale, si abbassa ogni giorno su un mare uguale al nostro.
Una leggera brezza taglia le dolci notti della capitale libanese. I fori delle granate del 2006 sono sparsi qua e là, tra luci e musica notturna, senza disturbare troppo.
La vita procede e si evolve secondo tempi e modi ogni volta nuovi: i libanesi sanno adattarsi a tutto, anche alla paura. Il loro modo di esorcizzare la guerra li rende fatalisti, epicurei, mai noiosi. Loro si ricordano di noi, come amici, come militari e persone di parola ed efficienti.
In Italia invece si continua a fare memoria nel modo sbagliato. I problemi sembrano sempre gli stessi, mentre lasciamo scivolare via tutto ciò che facciamo di buono.
(foto: Marina Militare)