Da Insideover un articolo interessante a firma di Lorenzo Vita
Negli Stati Uniti la chiamano la “flotta fantasma”. Non perché non esiste, o perché appare per poi scomparire. La chiamano così perché al suo interno non ha esseri umani: come quelle raccontate nelle leggende in cui vecchi bastimenti apparivano all’orizzonte senza alcuna persona a bordo.
Qui naturalmente di leggendario e oscuro non c’è nulla. Si tratta di un concreto programma militare, che il Pentagono ha avviato per rinforzare la propria Marina in vista delle sfide che coinvolgono (e coinvolgeranno) Washington sul fronte marittimo. Il progetto però si chiama proprio “fantasma”, o meglio, Ghost Fleet Overlord, ed è effettivamente composto di mezzi senza pilota che ha già due navi all’attivo: la USV Ranger e la USV Nomad.
Per ora la fase di sperimentazione di queste imbarcazioni è a buon punto, le due navi hanno già effettuato alcune operazioni e alcuni interessanti passaggi anche in acque difficili. Ma l’impressione è che il Pentagono abbia intenzione di accelerare sul progetto, iniziando a dotare la Us Navy di altre unità di questo tipo. Il sito specializzato The Drive ha segnalato che lo Strategic Capabilities Office del Pentagono trasferirà una coppia di navi di questo tipo alla Marina. E secondo diverse fonti, l’obiettivo non è più solo quello di aumentare il numero di queste navi, ma anche di migliorare le loro capacità: non serve più soltanto un’imbarcazione che si sposti tra due punti pilotandola da remoto, ma un’imbarcazione in grado anche di agire in forma autonoma nella navigazione, evitando ad esempio incidenti che potrebbero essere esclusi solo dalla presenza di personale a bordo.
L’intento, spiegano dal Pentagono, è al momento quello di sostenere il lavoro della Us Navy fornendo un supporto al grosso della Marina e agli equipaggi che compongono la flotta americana. Le prime unità sono state impiegate in generale per compiti di rifornimento, supporto o al limite per ricerca oceanografica. Ma il loro impiego, come detto, è in una fase sostanzialmente iniziale. Ed è chiaro che il Pentagono non sia spinto oltre nell’utilizzo della Ghost Fleet.
Quello che però si evince guardando più da vicino le mosse della Difesa Usa, è che alla Navy queste unità piacciono sempre di più, complice il desiderio di ridurre i costi senza per questo diminuire le capacità di attacco e di difesa della Marina. Del resto, un’unità senza personale a bordo, se non ridotto a poche persone specializzate, comporta per gli strateghi e per i decisori politici minori costi di arruolamento e meno rischi di perdite di vite umane. Obiettivi che sono diventati sempre più centrali nelle visioni strategiche di Washington in particolare per conflitti molto distanti dalla madrepatria e considerati da una larga fetta di popolazione come un inutile dispendio di soldi pubblici e di soldati. L’America non vuole più – e lo ha dimostrato anche a livello elettorale – i propri militari in luoghi remoti. E se esistono necessità strategiche che impediscono al Pentagono di abbassare drasticamente il proprio numero di soldati nei diversi angoli del mondo, è altrettanto vero che esistono scenari operativi in cui è possibile iniziare a costruire forze sempre meno dipendenti dalla presenza del “fattore umano”.
Un esempio, in questo senso, arriva da uno dei teatri più caldi, quello del Golfo Persico. Il mare che divide la Penisola arabica dall’Iran e in cui opera la Quinta Flotta degli Stati Uniti è al centro di una tensione latente derivata dal programma nucleare di Teheran e dall’intento di frenarne le ambizioni regionali da parte sei suoi principali rivali, a partire da Israele. La Repubblica islamica si è da tempo dotata di una forza navale composta di sciami di piccole imbarcazioni che, combinate con una discreta capacità missilistica e aerea – in particolare di droni – consente a Teheran e ai Guardiani della Rivoluzione di controllare in modo più o meno agevole lo Stretto di Hormuz. Le tattiche sono certamente molto diverse rispetto a quelle su cui si basano le forze americane o della Nato, così come quelle russe o cinesi, ma questo non ha ridotto le potenzialità dell’Iran, al punto che il controllo di Hormuz è sempre un nervo scoperto della politica occidentale in Medio Oriente.
Come raccontato da Usni News, il portale dello Us Navale Institute, la Quinta Flotta ha tra i suoi prossimi obiettivi quello di aumentare l’utilizzo nelle navi senza pilota in combinazione con le forze già poste sotto il Comando Centrale (Centcom). La Us Navy, in particolare con la Task Force 59, ha avviato da diversi mesi una serie di operazioni congiunte con i partner regionali per creare hub di controllo di queste imbarcazioni, in particolare Bahrain e Giordania. E lo scopo è quello di far sì che sempre più forze a controllo remoto, sia aeree che navali – e per quest’ultime sia di superficie che subacquee – riescano in qualche modo a sostituire la presenza fisica dei contingenti Usa e delle stesse navi, spesso impiegate in altri teatri operativi.
D’altro canto, il segnale lanciato di recente dai movimenti della Marina Usa è significativo: secondo i vertici della “5th Fleet”, il problema dei droni nemici in Medio Oriente è aumentato “in modo drammatico” ma, allo stesso tempo, attualmente non è presente alcun gruppo d’attacco della Navy nel Golfo Persico, con la portaerei più vicina che è nel Mediterraneo orientale. E di sicuro, in questa fase, il dispiegamento serve più per controllare quanto accade tra Levante e Mar Nero che per monitorare l’area del Vicino Oriente fino all’Oceano Indiano. Washington sa che l’Impero ha bisogno di frontiere controllate: i mezzi senza pilota iniziano a essere una valida alternativa. Ma con diversi punti interrogativi.